Va pensiero. Al Teatro Argentina la mesta resistenza di un vigile urbano

| Cultura

Un vigile urbano viene licenziato per disubbidienza. La sua colpa è non aver ceduto ai ricatti del potere, laddove il potere dava di sé la peggiore dimostrazione di corruzione e arroganza. Un fatto di cronaca e storia accaduto in una piccola città dell’Emilia Romagna non molti anni fa, ora diventa occasione per il nuovo lavoro del Teatro delle Albe. Va pensiero, al Teatro Argentina di Roma fino al 18 novembre, testo di Marco Martinelli, spettacolo ideato e diretto insieme a Ermanna Montanari, in scena con la storica compagnia ravennate più alcuni artisti ospiti e la partecipazione della Corale Polifonica Città di Anzio nell’esecuzione di brani scelti dalle opere di Giuseppe Verdi, che vola alto sulle miserie umane.

A cominciare dal ‘lieto calice’ respinto con una smorfia dal sindaco della città, per continuare indisturbata a parlare al cellulare. Il sindaco, non già la sindaca – si raccomanda la signora – perché ‘cos’è questa smania femminista di storpiare la nostra lingua’.

Scorrono in fila, una a una, concentrate in tre ore di teatro sincero, tutte le imposture che regolano -: regolano -, il nostro bel paese, il nostro sistema, la nostra rappresentanza beata, votata e foraggiata.E l’effetto potrebbe essere – e a volte lo è – davvero urticante. Se non fosse che Martinelli e Montanari scelgono come sempre lo straniamento e lo percorrono con estro, abilità, divertimento.

Secondo me si incazzano moltissimo mentre mettono insieme la materia grezza di certi loro spettacoli, ma poi sistemano su una specie di bersaglio da tiro a segno le vittime designate – al centro, probabilmente, le più disgustose -, quindi fanno un passo indietro e cominciano a giocare a freccette. Per la loro catarsi, e la nostra.

C’è un soave sadismo nel prendere per i fondelli prepotenti, cialtroni, buzzurri che sognano di riprodurre la fontana di Trevi o i colonnati romani nella piazza principale di una cittadina emiliana, e c’è una millimetrica precisione nel colpire nel segno. Si ride per le manie persecutorie di un farabutto ossessionato dalle microspie, che si annidano dovunque compresi i giocattoli, e per le ire del sindaco contro le virate lessicali di una rampante consulente finanziaria che ‘passa in un minuto dallo sfizioso all’addolorata’: un momento, questo, in cui Ermanna strappa l’applauso, meritatissimo.

E c’è un piacere innegabile nell’aprire tutti i vasi di Pandora sistemati intorno alle vicende del povero vigile, che resiste imperterrito a provocazioni e lusinghe.

Una figura mesta, la sua, che mestamente rappresenta la buona fede senza eroismi, senza scaltrezza, senza rendersi conto di dover difendersi da serpenti e avvoltoi.

In una giungla organizzata di malavitosi in carriera, gli stupidi sono coloro che non riconoscono l’ipocrisia, non cavalcano la convenienza, non intercettano al volo messaggi confusi e ordini opposti che invece sono mirati a un unico scopo. È il caso questo della segretaria del sindaco, una ragazzetta giuliva che non si capisce fino in fondo se ci è o ci fa e che poi si distrae con lo yoga e la zumba.

Ribaltando ogni ordine e logica, scardinando da subito ogni aspettativa fondata sul più elementare buon senso, sembra tutto normale: gli abusi edilizi, le centrali che inquinano, le tangenti, la stampa che abbozza, compiace, sostiene; i locali chiusi per mafia, con tanto di cartello da centrare preciso sulla porta sbarrata. È un altro gran bel momento quello in cui il proprietario del locale in questione – una gelateria – improvvisa un comizio contro il sindaco, sospeso tra connivenza e silenzio, montando su una sedia posta a sua volta su un tavolino, e sotto il popolo – due tre forse quattro sodali – che almeno ci provano a contestare con lui. Ma contro chi, se nessuno li ascolta.

Viste tutte insieme, queste emanazioni proteiformi del potere  centrale, sembrano tirate fuori da una camera iperbarica, olgettine comprese, e fanno una certa impressione. Sembrano tante, sembrano resistere, sembrano riprodursi fino a diventare invisibili. Signor X, grandi fratelli, microspie, appunto, sempre più micro, sempre più spie. Ma la sostanza è la stessa, come il denaro – da accumulare o sottrarre – nelle sue molteplici forme. ‘Il problema non è più accumulare la ricchezza ma giustificarla’, si dice in una delle battute di chiusa. E allora anche le nuove gelaterie saranno colorate di sberluccicanti slot machine: per i giochi finti dei disperati e il godimento grasso degli invisibili.

Slot machine, un loro spettacolo di tre anni fa, dedicato al gioco d’azzardo. Una delle sacrosante ossessioni di questi artisti che il teatro non lo fanno per caso.

Alessandra Bernocco

Giornalista, laureata in filosofia, ama scrivere e cucinare. Da sempre appassionata di teatro, ha insegnato storia del teatro e collaborato come critico a vari periodici tra cui Europa, L’Unità.tv, Multiversi, Dramma e Oltrecultura. Ha pubblicato Suite Bohémien (Robin) e Bip. Il rumore del tempo sospeso (Dialoghi) Si sfoga sul suo blog, Verba manent.