E’ nota la situazione in cui siamo. Dall’11 marzo proclamazione della pandemia da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Emergenza sanitaria di dimensione globale, con una particolare escalation in Italia, non senza qualche timida attesa, negli ultimi giorni, di una lenta inversione di tendenza, senza per questo abbassare la guardia. Il primo pensiero alle vittime, ai contagiati, a chi non c’è più. In un transito, come si è visto, spesso privo del conforto dei cari. Nella riaffermazione del principio di precauzione, il primato della salute, valore costituzionale, con le relative prescrizioni di distanziamento sociale, misure igieniche, consigliabili anche senza il Coronavirus, dispositivi di protezione individuale, mascherine comprese.
In prima linea, medici e infermieri, affiancati dalla Protezione civile, dalle organizzazioni di volontariato, dai servizi sociali, dalle forze dell’ordine, dall’Esercito. L’azione di governo collegata a due strumenti motivati dalle circostanze: Decreti-Legge e DPCM, questi ultimi a doppia firma del Presidente del Consiglio dei ministri e del Ministro della Salute. Dal Decreto-Legge 23 febbraio 2020 n. 6 al Decreto-Legge 25 marzo 2020 n. 19, appena pubblicato in Gazzetta Ufficiale.
La preoccupazione si trasforma in coesione sociale, risorsa indispensabile per combattere il male. Poi si può sempre far meglio e di più. Non c’è strategia che non abbia bisogno, in un sistema democratico e pluralistico, di una messa a punto, di un incessante monitoraggio, con una condivisione larga, utilizzando, con umiltà, il metodo dell’autocorrezione. Non senza la fatica di conciliare le ragioni della salute pubblica con quelle della crescita economica. Bene, quindi, il dialogo, senza pasticci, tra maggioranza di governo e opposizioni, se vi è una chiara volontà di passare dal polemos strumentale al riconoscersi nella stessa polis. Il dibattito di ieri alla Camera, un segno di partecipazione del Parlamento alla vita reale del Paese.
Una situazione nella quale siamo stati precipitati nell’arco di poche settimane, con una brusca interruzione di abitudini e assunzione di un costume civile fatto di un maggiore rispetto per le regole, di una più forte responsabilità sociale della persona. Lo stillicidio della triste contabilità della giornata alle 18 del pomeriggio, con la conferenza stampa della Protezione civile, un bollettino, non di guerra, ma di un’emergenza oggettivamente drammatica. L’orrendo riferirsi agli anziani come se fosse meno grave la perdita di una vita umana in relazione all’età.
Non è il momento dei sociologismi: ma forse è il caso di ricordare quanto sia fragile il fondamento delle strutture di un tempo che si presume invincibile, destinato, invece, a vacillare, e a implodere, di fronte ad un fenomeno naturale, non previsto, subito. Ulrich Beck ha scritto pagine illuminanti sulla società del rischio, tanto incline ai piccoli fasti dell’autocelebrazione, quanto esposta all’inciampo e all’autoinganno. Nel frattempo il fenomeno si è diffuso coinvolgendo altre nazioni europee alle quali è toccato in sorte di dileggiare le misure che poi sono state costrette ad assumere pur con qualche variante. Le nostre città svuotate e, al contempo, restituite ad un esserci silente, dolente, espressivo. Ora sono loro che ci osservano. Scuole e Università impegnate nella didattica a distanza. Non pochi ancora al lavoro, pensiamo agli autisti dei bus, alle cassiere dei supermercati. Tanti a casa. Anche se ancora qualcuno non ha capito come gira la partita e deambula senza motivo. Le strade deserte. Quindi un’idea più adeguata di sostenibilità è immaginabile, anche fuori dall’emergenza, per una mobilità contro l’inquinamento atmosferico. Le code davanti ai negozi.
Una situazione irrituale, che ci consegna anche l’occasione per una riflessione su come eravamo, sino a pochi giorni fa, su come potremmo essere, speriamo presto, se riusciamo a venire a capo di una situazione da cui dobbiamo trarre la forza non solo per sconfiggere il virus, anche per promuovere un più profondo cambiamento in ciò che non va nella nostra vita sociale. Possiamo meglio comprendere quanto superfluo vi sia, di cui si può fare a meno. Dalla predicazione alla pratica della resilienza, riscoprendo, per quanto tardivamente, l’Agenda ONU 2030, sottoscritta nell’ormai lontano settembre 2015. Un altro esito che già si sta delineando è la maggiore coscienza del rilievo di un sistema sanitario universalistico, il SSN con la legge 833 del 23 dicembre 1978.
In tutta la chiacchiera con la quale ci si baloccava sino a poche settimane fa sul futuro adesso, no tra un istante, è già qui e incalza e incombe e ci trascina in un vortice verso magnifiche sorti e progressive: ecco, uno sguardo grato ad un lungimirante passato, anche se troppo spesso disatteso da tagli e inadeguatezze. Nel futuro si entra attraverso ciò che di buono è stato fatto nel passato. Così come il prendere più sul serio tutto ciò che slow, la cultura degli stili di vita, siccome non tutto dipende da noi, ma per ciò che dipende da noi, orientiamoci, sin dalle piccole cose, verso una maggiore coscienza dei limiti.
I fatti si determinano anche in relazione alle sfide che si pongono e le sfide provocano la necessità di qualche più repentina accelerazione, nell’organizzazione sociale, nei comportamenti, nell’uso della tecnologia, nella stessa produzione normativa. Due osservazioni. La prima riguarda l’Unione Europa, la seconda il lavoro. Ursula von der Leyen, Presidente della Commissione europea, in data 20 marzo, ha annunciato la deroga al tetto al 3% nel rapporto tra deficit e Pil; tale decisione consentirà ai Governi di “pompare nel sistema denaro finché serve” – queste le parole utilizzate. Contestualmente, la Banca centrale europea ha aperto un “ombrello” di sostegni economici di proporzioni non ordinarie. Il Decreto Cura Italia da 25 miliardi di euro. Osservazione: allora si può fare. La decisione della Commissione europea sul patto di stabilità dimostra come i vincoli imponessero una disciplina dei conti pubblici non scritta sulle tavole della legge, ma frutto di un orientamento politico, rivedibile e correggibile, come ogni altro.
Quindi, il lavoro. Sono numerosi gli interventi a sostegno del lavoro e delle imprese che sono stati previsti, nonostante quel che si dica. Vorrei fissare l’attenzione, in particolare, sull’articolo 87 del decreto legge 17 marzo 2020 n. 18. In esso si dà la condizione di un inedito processo di dislocazione del lavoro dalla presenza alla distanza. Si dice smart working, o lavoro agile. Sino a considerare questa nuova forma di lavoro la “modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa”. Le circostanze si stanno incaricando di dimostrare come il rispetto del lavoro non sia in contraddizione con l’innovazione nell’organizzazione del lavoro.
Nello stesso decreto si spiega che, qualora “non sia possibile ricorrere al lavoro agile”, “le amministrazioni utilizzano gli strumenti delle ferie pregresse, del congedo, della banca ore, della rotazione e di altri analoghi istituti, nel rispetto della contrattazione collettiva”. E che, esperite tali possibilità, possono motivatamente “esentare il personale dipendente dal servizio” e che esso è “servizio prestato a tutti gli effetti di legge”. Ciò anche ai sensi dell’art. 1256 del Codice civile: “L’obbligazione si estingue quando, per una causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa impossibile”. Nel Decreto-Legge 25 marzo 2020, numero 19, ancora fresco della stampa sulla “Gazzetta Ufficiale”, all’articolo 1 lettera s), si ribadisce il concetto. Quindi il lavoro agile: 1) modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa”; 2) l’esenzione dal servizio, servizio prestato a tutti gli effetti di legge.
Il lavoro in presenza viene da una grande storia. L’emergenza sanitaria ne avverte i limiti, dislocandolo sul lavoro a distanza, garantito dalla cultura digitale. So bene che ciò comporta rischi che vanno attentamente considerati, sia sotto il profilo della sicurezza, irrinunciabile anche nella nuova condizione, sia sotto il profilo di possibili ulteriori diseguaglianze, a partire dal digital divide. Entrambi questi aspetti non vanno affatto sottovalutati.
Il lavoro agile non sarà la soluzione di tutti i mali; ma è la dimostrazione che un salto tecnologico e organizzativo è possibile, adesso, che la vecchia idea concentrazionaria del lavoro può meglio dispiegarsi nella configurazione della rete. Siamo di fronte ad un cambio di passo, ad un cambio di senso del sistema. Qualcosa di destinato a segnare un passaggio d’epoca e di mentalità. Dal formalismo degli adempimenti ad una più matura cultura dei risultati. Qualcosa che può comportare cambiamenti più rilevanti di quelli perseguiti, tra luci e ombre, dall’innovazione amministrativa nell’ultimo trentennio. Qualcosa che può dare concretezza agli auspici, sempre enunciati, per lo più sempre disattesi, della semplificazione, della snellezza, della speditezza. A causa del Coronavirus, oltre il Coronavirus. Come si ama ripetere, le crisi non lasciano mai le cose come prima.