(Questo articolo è stato pubblicato su Il manifesto del 16 settembre 2020)
Nei giorni più caldi dell’occupazione delle fabbriche a Torino, di cui ricorre quest’anno il centenario, ebbe luogo, alla stazione di Porta Nuova, un singolare e poco conosciuto incontro, raccontato sull’edizione piemontese dell’ “Avanti!” da un cronista d’eccezione: Antonio Gramsci.
«Sabato, 18 settembre, il cav. Agnelli, amministratore della Fiat» – racconta Gramsci – «chiedeva un abboccamento per questione urgente e grave col compagno on. Romita. (…) Il cav. Agnelli gli ha offerto di iniziare trattative per trasformare la Fiat, l’azienda di cui egli si può dire il creatore e l’animatore, in una grande cooperativa di produzione. Alla stazione furono presi accordi per gli incontri successivi». Giuseppe Romita non era soltanto un giovane deputato socialista, eletto per la prima volta nel 1919, ma era anche il direttore tecnico della produzione degli stabilimenti Fiat nella fase dell’occupazione e uno dei professionisti di fiducia del sistema delle cooperative torinesi.
Gli incontri con Agnelli e la dirigenza Fiat furono numerosi e videro la presenza, tra gli altri, anche di «compagni nostri in rappresentanza degli enti che potrebbero essere interessati alla cosa, qualora essa passasse dal cielo dei progetti al terreno della realtà: il Consorzio delle cooperative, la Camera del lavoro, la Federazione metallurgica».
Che la proposta di Agnelli non fosse una boutade è confermato dal verbale della riunione del 29 settembre 1920 del consiglio d’amministrazione della Fiat, in cui si evidenziava come «Le masse, inebriate dal facile successo, sapendo di essere sostenute dal governo, non fanno mistero che la lotta di classe proseguirà senza quartiere dentro e fuori le fabbriche. Le masse perseguono un ideale di comunismo e di anarchia, che viene predicato loro da molto tempo, e di cui la vittoria attuale è il primo passo. D’altro canto l’autorità degli industriali che sono stati gli esponenti delle lotte passate è completamente caduta ed è loro impossibile tenere la disciplina nelle officine e comandare le masse. (…) Proseguire in queste condizioni significherebbe, in modo certo, mandare in rovina la società. Per salvare l’ente bisogna quindi cercare altre forme di lavoro che permettano di ottenere ciò che in regime capitalistico non si riesce più a ottenere, cioè la disciplina, e la volontà di lavorare». Detto con le parole di Gramsci, «i dirigenti della Fiat sono stati assillati dall’incubo di avere in officina alcune decine di migliaia non di collaboratori, ma di nemici».
L’ipotesi di una Fiat cooperativa entrò nel dibattito pubblico. Luigi Einaudi dalle colonne del “Corriere della Sera”, espresse dubbi e riserve in relazione alle oggettive difficoltà da parte delle organizzazioni operaie nel reperimento dell’enorme massa di denaro necessaria per pagare le azioni della società, gli interessi fissi e una parte degli utili.
Anche all’interno delle organizzazioni economiche del movimento operaio e della sezione del Partito socialista si aprì un serrato confronto sul tema, che fu raccontato, sempre da Gramsci, in uno scritto sulla questione meridionale, apparso per la prima volta a Parigi nel gennaio 1930 sulla rivista “Lo Stato Operaio”, la cui stesura originale risalirebbe però al 1926.
In quell’articolo Gramsci inquadrò la proposta della direzione della Fiat in un tentativo più ampio, che sarebbe stato messo in atto da Giolitti, con la complicità dei riformisti del Psi e del sindacato, al fine di «addomesticare gli operai torinesi». Nella ricostruzione gramsciana del dibattito interno al movimento operaio, infatti, i sindacalisti e i cooperatori riformisti si erano dichiarati pronti ad accettare la sfida proposta da Agnelli, al punto da costringere la sezione socialista torinese, «guidata dai comunisti» (dall’agosto 1920 il segretario era Palmiro Togliatti), a intervenire «energicamente nella questione».
Attorno alla proposta di trasformazione della Fiat in cooperativa si giocò, dunque, anche una partita tutta politica che aveva come posta in palio la guida del movimento operaio nella Pietrogrado d’Italia.
La proposta del cav. Agnelli, fu osteggiata dall’ala intransigente della sinistra torinese, massimalisti e ordinovisti in questo concordi, perché venne interpretata come una sorta di “cavallo di Troia”, utile solo per distogliere gli operai da quello che ritenevano essere il vero obiettivo dell’occupazione delle fabbriche: l’inizio della rivoluzione italiana.
Dal canto loro, i riformisti, minoranza nel partito ma maggioranza nel sindacato e nella cooperazione, vedevano in quel progetto la possibilità di dare uno sbocco concreto e pragmatico alle lotte operaie e diventare così “padroni” della fabbrica attraverso lo strumento cooperativo.
Se il progetto di trasformazione della Fiat in cooperativa si fosse realizzato, i riformisti avrebbero indubitabilmente segnato un punto pesante a loro favore sia sul piano simbolico sia in quello economico, con significativi riflessi sugli equilibri futuri dell’intera sinistra italiana.
Il fallimento delle trattative, fu, infine, sintetizzato dall’efficace titolo dell’“Avanti!” del 9 ottobre 1920: “Contro il traviamento cooperativistico”.
La sorprendente e abile mossa di Giovanni Agnelli ottenne, invece, non soltanto il risultato di riportarlo di lì a poche settimane, dopo aver riconquistato la piena fiducia degli azionisti, saldamente alla guida della Fiat, ma anche di sconfiggere le ambizioni riformatrici del sistema di Bruno Buozzi e dalla Fiom e di proiettare in un futuro indefinito e astratto anche le aspirazioni rivoluzionarie dei comunisti dell’”Ordine Nuovo”.