Cosa aggiungere su Joker di Todd Phillips dopo il profluvio di recensioni e spettatori e incassi, dal 3 ottobre nelle sale italiane, già vincitore nella Mostra del Cinema di Venezia? Solo un paio di notazioni a margine. La prima è sul corpo dell’attore. La seconda sull’estetismo dell’immagine. La terza sulla rivolta sociale come tramonto dell’idea di rivoluzione.
E’ stupefacente la mise-en-scène non solo della voce, dello sguardo e del gesto, sino a una risata che dà tragicamente il senso vissuto di un’alterità radicale a una corporeità trasfigurata e dolente, attraente e repulsiva, in un incessante avvicendarsi di espressioni, del pagliaccio, dell’aspirante cabarettista, del drop-out, del deviante, del depresso, del caso psichiatrico, del paziente in attesa di un distratto e laconico colloquio affidato a servizi sociali in procinto di essere tagliati.
Ci può essere figura più rappresentativa di una condizione di marginalità estrema? Un paria due volte bullizzato, pestato a sangue, gratuitamente, senza motivo, prima da una banda di teppisti ragazzini, poi da un gruppo di yuppie adulti annoiati e ben vestiti. Preso a pugni e calci, indifeso e inerme, a terra, uno straccio variopinto, ansimante e stremato. Mentre scrivo leggo su un giornale on line: “Usa, New York: uccisi a sprangate quattro senzatetto nel sonno”. Ecco, la società di cui si parla, qui e ora, è questa, una Gotham city espansa, senza coscienza di sé, ferita dalle diseguaglianze e dalle discriminazioni.
Poi una pistola, in un’America incline all’uso delle armi, non provoca, ma favorisce la trasformazione di Arthur Fleck da vittima in carnefice, in un assassino feroce, al di là del bene e del male, in metropolitana, con la madre, Penny, rompendo definitivamente un legame malato, con il presunto amico e collega, con l’anchorman di successo in diretta tv (un impeccabile Robert De Niro). Un giustiziere senza giustizia. Deiezione senza riscatto. Nel punto in cui si rompe il precario equilibrio, nel momento in cui il protagonista smette di prendere psicofarmaci. E’ la storia di un’identità incerta e contesa, tra le mistificazioni materne e la verità, tardivamente scoperta, di un’infanzia profanata, abusata.
Joaquin Phoenix, il corpo che riempie la macchina da presa: la sigaretta tra i denti, gli occhi, i capelli, la schiena scarnificata, le esili braccia, le costole esibite in una spettrale magrezza. Al contempo, una silhouette acrobatica e danzante, funambolica e onirica, dionisiaca e ditirambica, avvolta nel trash metropolitano.
Qui bisogna fare attenzione. E’ vero che il personaggio del buffone criminale viene come nobilitato dall’estetismo delle immagini. Non c’è dubbio che vi sia un esibizionismo della violenza, subita, inflitta. Ma non siamo al cospetto del pulpito di un moralista; ma di un film; fiction, non verità; la seconda che, eventualmente, traluce dalla prima.
Certo, l’idea del potere, oggi si direbbe dell’establishment, semplificata in un classismo ottuso, stereotipato, probabilmente come lo è in buona parte dell’opinione pubblica. La figura del politico, candidato sindaco, il miliardario Thomas Wayne, padre presunto, chiuso in un’enclave castale, inaccessibile, assediato da folle inferocite pronte a mettere i loro like sulle imprese di Joker, sino a emularlo.
Il finale nell’apoteosi della biacca del trucco, le dita che traggono dalla bocca ferita il sangue per stendere sulle labbra un sorriso ferino e soddisfatto nel pieno della rivolta urbana. A epigrafe, quella frase del diario: «Spero che la mia morte abbia più senso della mia vita». La città in stato d’assedio, a ferro e fuoco, le auto incendiate, in un’orgia di manifestanti travisati da clown. In questo contesto, il delitto di una triste tradizione non solo a stelle e strisce, con l’uccisione di Wayne e di sua moglie. Le forze dell’ordine sopraffatte dalla folla. La vicenda sociale inestricabilmente intrecciata al disagio psichico. L’uno nell’altra.
A dispetto di ogni determinismo, in fondo, è così: rapporti sociali e dinamiche psichiche sono inscindibili. Il potere, non solo luogo fisico di conquista, come lo è stato in un non breve tratto della modernità, dalla presa della Bastiglia al Palazzo d’Inverno. Il dominio non solo imposizione, ma interiorizzazione, sino alla microfisica del potere e alla biopolitica.
In questo senso l’immaginario rappresentato nelle scene finali di Joker restituisce un futuro distopico che trae congedo da ogni idea ottimistica inscritta su un piano di razionalità, affidandosi alla rivolta, postideologica e impolitica, animata da una forma di rutilante e sanguinosa spettacolarizzazione.
Il cinema è racconto per immagini ed è fatto di una ricerca volta a catturare l’istante rivelatore; la scena di Joker che danza, scendendo le scale su cui faticosamente saliva Arthur Fleck tornando verso casa, è destinata a rimanere negli occhi dello spettatore; un segno dei tempi, forse orientato a segnare il tempo che verrà. L’icona irredenta e perturbante, sublime e miserrima di Joaquin Phoenix, ben rappresenta il tempo presente nel simbolo di un’infelicità nichilistica che danza sull’abisso.