Non scopriamo oggi che in Ucraina la parola pace è un tabù La guerra nel Donbass dura da otto anni, ha già fatto 14000 vittime, impoverito diffusamente la popolazione civile. Chiaramente ora siamo davanti al rischio concreto di una escalation militare, che per il momento è interna, ma nessuno è in grado di prevedere che non dilaghi anche fuori. Da guerra civile diventerebbe una guerra classica tra Stati avversari. Sarebbe la catastrofe.
Forse è utile sottolineare cinque aspetti della crisi, per capire quanto è intricata la matassa e quali dovrebbero essere le mosse da fare.
- Le popolazioni russofone chiedono il riconoscimento della cittadinanza russa. Sono già 450000 ad oggi i primi esodi di profughi verso Mosca. Forse non è chiaro a tutti che esiste una questione russa all’estero, i cosiddetti Piedi rossi che dopo la fine dell’Urss vivono fuori dai confini della CSI sono tra i 25 e i 30 milioni. Una condizione che infiamma il nazionalismo russo, che preme sulle classi dirigenti per fargli recuperare antichi fasti imperiali. Anche perché come è noto non ovunque i diritti delle minoranze sono garantiti. Fino a qualche anno fa in Lettonia i cittadini russi non avevano nemmeno diritto di voto, mentre in Ucraina, la lingua russa non è più lingua nazionale dal 2019. Non una cosetta da poco. Immaginiamo soltanto un momento se l’equivalente valesse per paesi come la Germania o la Francia. Cosa direbbero i fautori dell’ingerenza umanitaria?
- Putin con una mano muove a suo piacimento la manopola del rubinetto del gas e del petrolio sulle debolezze dell’Europa, dall’altro si dice pronto a un negoziato a tutti i livelli, compresa una nuova strategia di Helsinki che ridisegni una stagione di coesistenza pacifica duratura con l’Occidente. La manovra di truppe al confine ucraino, le esercitazioni militari in Bielorussia, il sostegno ai separatisti sono operazioni che producono inquietudine e vanno condannate perché prefigurano la possibilità di un’aggressione militare su uno stato sovrano. Sono l’irruzione della crudezza della guerra ai confini di un continente pacificato. Ci sta facendo vedere cosa può succedere se non si riconoscono le sue ragioni al tavolo negoziale. È un ricatto? Indubbiamente. E ai ricatti non bisogna sottostare mai. Allo stesso tempo, forse sarebbe saggio anche guardare con più equilibrio alle motivazioni per cui ci siamo finiti dentro. Perché qualche errore lo abbiamo fatto anche noi occidentali. Di superficialità, di subalternità ed anche di presunzione.
- L’Ucraina continua a chiedere l’ingresso nella NATO. Ormai è evidente che l’adesione all’Ue è poco più che uno schermo: si sentono più sicuri con le basi militari al confine con la Russia. Vanno fatti i conti con i sentimenti di un popolo ed anche con la storia recente e passata di un paese. Ci sono però alcune controindicazioni che andrebbero affrontate con meno leggerezza. Innanzitutto, l’eliminazione di qualsiasi cuscinetto tra Mosca e l’Europa ci porterebbe prima o poi a un’escalation. È chiaro che Putin si sentirebbe meno garantito, il ruolo diplomatico dell’Ue verrebbe retrocesso, crescerebbe un clima da guerra fredda nettamente superiore ad oggi. Allo stesso tempo, continuerebbe lo stop and go delle forniture energetiche, con un danno per le economie europee incalcolabile. Rialzerebbe solamente la testa un po’ il nazionalismo ucraino, che non è propriamente democratico e liberale. Basta consultare qualche manuale di storia contemporanea per capirlo. Non c’è d’altra parte alcun automatismo tra la partecipazione alla NATO e la crescita di una democrazia liberale. Basta guardare dentro il giardino di casa l’involuzione dell’Ungheria, della Polonia oppure della Turchia.
- Cosa pensano fino in fondo gli USA del rapporto con l’Europa? Continuano ancora a reputarci non sufficientemente adulti per badare a noi stessi? Credono sempre che un’autonomizzazione politica ma anche strategica produrrebbe dei danni agli interessi diretti di Washington? Putin abbiamo capito perfettamente cosa vuole: un accordo di lungo periodo sulle forniture e nessuna ulteriore zona d’influenza alle frontiere. Biden invece cosa vuole realmente? L’abbandono afgano – effettuato senza nemmeno una telefonata a Bruxelles – ci parla di un’America che non sembra più coltivare l’ambizione di essere un gendarme globale. Si concentra sul Pacifico e considera il caos mediterraneo ed europeo un grattacapo di troppo. Salvo se non diventa un teatro di scontro indiretto con i russi e i cinesi. Ma senza però mettere gli scarponi sul terreno e limitandosi a tirare la corda per evitare che l’alleato europeo possa scappare dall’altra parte. Insomma, sempre da noi dovete passare, perché la sovranità non è ancora un lusso che potete permettervi fino in fondo. Quanto tempo può reggere, soprattutto davanti alle turbolenze della sponda sud del Mediterraneo – dove i russi e i cinesi ci sono eccome – e i Balcani nuovamente in subbuglio?
- Io credo che ci siano ancora le condizioni per un tavolo che riapra un processo di pace. È interesse dell’Europa una Russia che riprenda il dialogo e che non finisca interamente nelle braccia della Cina. Dovrebbe essere lo stesso interesse degli USA. Ma a evidentemente dalle parti della Casa Bianca prevalgono altre priorità di MidTerm. Bisogna però fare tre passi chiari. La NATO può funzionare anche senza l’Ucraina, che deve restare un paese cuscinetto, protetto dalla comunità internazionale. Le forniture energetiche vanno ricontratte sul lungo periodo, perché la transizione ecologica non si fa in due mesi ed altri approvvigionamenti così significativi nell’immediato non esistono. Gli accordi di Minsk vanno implementati e fatti rispettare perché garantiscono integrità territoriale di Kiev e autonomia per le province russofone. Il modello è quello altoatesino, che ha un timbro internazionale, e che funziona da settant’anni. Con meno di questo, sappiamo cosa ci aspetta. E le vittime saremo noi.