Anzitutto grazie a L_Antonio per aver aperto una riflessione interessante nonché urgente e ritengo che l’articolo esprima considerazioni interessanti e per molti versi condivisibili. Io credo che il partito che dovremmo costruire non può essere un PCI 3.0, nel PD non ci siamo trovati affatto male con una certa anima popolare proveniente dalla “sinistra DC” e non ci troviamo male con un’anima cattolica sociale, lo dico da agnostico non credente e non convertibile, ci troviamo male con la parte neoliberista del PD, non importa che si autodefinisca “più moderata” o “più a sinistra”.
Purtroppo, quella parte ha visto e vede come esponenti l’ala renziana ma anche una cospicua fetta di persone provenienti dai DS/PDS che ricordano la loro tessera del P.C.I. o, per i più giovani, commemorano ad esempio la scissione di Livorno con lo stesso atteggiamento con il quale si acquista un oggetto di antiquariato da un rigattiere per metterlo in qualche teca e dimenticarlo. Il virus del neoliberismo esploso con il tatcherismo e il reaganismo ha influenzato in modo trasversale la politica italiana, l’università e i mass media. Una vera e propria “dittatura dolce” che ha condizionato l’opinione pubblica non tanto per le sue idee che vediamo crollare sotto il peso dei risultati e dei fatti, dall’aumento delle disuguaglianze sociali all’esplosione dei populismi e dei leaderismi, al fallimento della promessa di crescita economica e benessere ma anche per la sua implacabile opera di delegittimazione di ogni proposta diversa di società e di economia sostenibile. Una delle frasi più celebri della Tatcher era “There is no alternative” (TINA), questo è il mantra che abbiamo subito negli ultimi 40 anni ed è uno slogan profondamente antidemocratico e pericoloso non solo per chi ha un’alternativa più o meno utopica ma per lo stesso sistema capitalistico che attraverso la ricerca di soluzioni alternative ha visto il suo sviluppo. Il neoliberismo non si riconosce come idea alternativa alle altre ma come idea unica che elimina qualsiasi possibile idea alternativa, fino a presentarsi non come un’idea politica ma come una teoria economica con un’aurea di oggettivismo che le teorie economiche non possono avere anche per questo è pericoloso.
Il tema da porre non è solo quello della ricomposizione della sinistra in un partito, che mi vede d’accordo, ma anche quello della ricostruzione ideologica della sinistra.
Una ricostruzione ideologica che vedrei intorno ad un solido impianto keynesiano e democratico, un netto schieramento con “i produttori” anziché con “le rendite” e con una energia progressista e popolare.
Dove “i produttori” sono tutti quelli che la mattina si alzano per andare a lavorare ovunque vanno, siano imprenditori etici e onesti rispettosi del lavoro altrui o rider precari a chiamata, passando per chi lavora nella pubblica amministrazione o in imprese private con rispetto degli altri e correttezza.
“Le rendite” sono quelli che grazie a posizioni di vantaggio possono diventare sempre più ricchi senza lavorare o facendolo in modo trascurabile: capitale da investire in borsa e strumenti finanziari; concessioni governative; posizioni di vantaggio eccetera.
In questa demarcazione credo che ci si ritroverebbe un vasto schieramento sociale, questo partito che L_Antonio immagina e che mi trova d’accordo non sarebbe marginalizzato come “quelli di sinistra” e tenuto fuori da tutto, ogni tanto utilizzato da un partito moderato per tenere in piedi qualche governo ma sarebbe una reale forza di mutamento e riforme sociali (non il “riformismo” come è stato propinato negli ultimi 40 anni).
Questo presuppone non solo una visione ideale e ideologica del partito ma anche un passo avanti organizzativo.
Da una parte è necessario trovare una modalità di selezione del partito che superi i metodi con i quali si seleziona la classe dirigente: se vogliamo fare il partito in cui gli operai possano riconoscersi è necessario che qualche operaio possa entrare negli organi dirigenti, così come qualche precario, manager o imprenditore. Non è possibile che i dirigenti di oggi siano quasi tutti figli di quelli di ieri, non di rado staccati dalle realtà sociali. Non ho nulla contro i figli ma se vuoi rappresentare un pezzo di società devi essere pronto a compenetrarti con quel pezzo di società, sia un piccolo imprenditore, un dirigente di azienda, un manager, un raider. E la selezione deve prevedere una sana “gavetta”, quella esperienza sul campo della società e non per forza delle amministrazioni. Un dirigente politico deve conoscere chi vuole rappresentare, entrare in empatia con esso, metterlo in discussione e mettersi in discussione. Deve diventare un pesce nell’acqua di chi vuole rappresentare se vuole che quest’ultimo gli deleghi il suo futuro. Nella scelta della classe dirigente dobbiamo tornare a dare centralità a questo anziché all’esperienza amministrativa, a quel percorso che parte dai municipi al parlamento senza un contatto con la società. È evidente che l’esperienza amministrativa è necessaria ma il dirigente politico non si riconosce dalla capacità di fare una delibera ma da quella di trasformare la società, disegnare e costruire il futuro, avere il coraggio di assumersi la responsabilità, di cambiare la realtà.
È anche importante la partecipazione dei giovani ma dobbiamo scrollarci di dosso l’idea che basta essere giovane per fare carriera, per avere porte aperte. In una società nella quale l’età si allunga il partito deve privilegiare le capacità delle persone. Aggiungerei che il partito che vogliamo creare debba anche porsi il problema dei giovani in modo che chi entra a lavorare nel partito possa essere spinto ed aiutato a costruirsi una professione così dopo un po’ di anni è libero di andarsene a fare un altro lavoro, in un mondo in continuo cambiamento non esisteranno più professioni per tutta la vita ed è importante che nessuno si senta vincolato dal doversi procurare uno stipendio. Si deve poter immaginare la politica come qualcosa alla quale si può dedicare un pezzo della propria vita con la libertà di confrontarsi se quel pezzo debba essere tutto o solo una parte, mettendo a disposizione l’esperienza maturata su settori professionali diversi, per i quali ci si è preparati per tempo. Stante il fatto che la politica è un lavoro nel quale ci debbono essere professionisti, pagati il giusto come per gli altri lavori ai quali bisogna dedicare tempo, studio ed energie.
Da questo punto di vista ritengo che la sinistra debba spingere affinché si faccia una legge di attuazione dell’articolo 49 della Costituzione nella quale si regolamenti l’assetto dei partiti e la loro organizzazione minima interna, la trasparenza. Questa legge credo debba contenere anche contributi pubblici per far vivere i partiti e soprattutto la nostra democrazia. Il lavoro in politica non può essere considerato uno stigma e per far questo bisogna avere classi dirigenti ed organizzazioni conseguenti, partiti che producono buona politica e riconoscimento sociale. Questa è una battaglia fondamentale anche per superare i partiti del capo che mettono il cognome del “leader” sul marchio un po’ come alcune aziende si chiamano con il nome del fondatore e si passano da padre in figlio la gestione (ed è noto nelle imprese italiane il problema della seconda generazione incapace di fare come i fondatori e causa del loro nanismo).
Dall’altra parte c’è un problema organizzativo: è necessario trovare le forme per far in modo che le persone possano partecipare, non siamo più negli anni ’70 e le sezioni è difficile trovarle e mantenerle. È tempo di sperimentare nuove forme che non siano i social (da cui dovremmo tutti andarcene) per organizzare anche online la militanza. Il partito con i suoi luoghi sociali e di socialità dovrebbe diventare l’alternativa a Netflix la sera per le persone. Anziché mettersi a guardare un film o un talk scemo alla tv dovrebbero poter entrare in un “social interno” nel quale poter accedere a momenti di discussione, organizzazione ma anche a momenti di socialità e divertimento. Conoscere persone nuove e fare due chiacchiere con un bicchiere di vino. La pandemia cambierà il nostro modo di socializzare, speriamo di tornare presto ad incontrarci in bar e luoghi di discussione ma non perderemo la dimensione di poter fare riunioni online con persone da tutto il mondo o vicini di casa e condividere progetti ed interessi. Cambierà perfino la dimensione internazionale del nostro fare politica potendo confrontarci con esperienze di altri paesi a costo zero e alla portata di tutti.
Ormai cominciano ad esserci soluzioni software e metodi interessanti. Il nostro nuovo partito dovrebbe avere un dipartimento di tecnologi ed esperti che eguaglino quello che faceva il P.C.I. con un centro di calcolo che si confrontava alla pari con tutte le aziende di sondaggi sulle previsioni elettorali, applicazioni informatiche, innovazione nei media. I movimenti socialisti hanno avuto il loro successo anche per il fatto che sono stati capaci di anticipare i tempi, di inventare giornali di massa e innovare la grafica dei manifesti, la propaganda. Nel III millennio le tecnologie informatiche, la scienza dei dati, la capacità di dominare i mass media (che non significa mettere qualche ragazzo a fare il “social media manager” per fare qualche post o “trollare” qualche utente) devono essere i nostri strumenti di base. La destra di Trump si ritrova su Parler, un social diverso da facebook dove è dominante, una piattaforma diventata lo strumento principale di organizzazione di quell’area politica sia come formazione ideologica che come azione organizzativa. E invece la sinistra spesso subisce la tecnologia, è incapace perfino di discutere i problemi etici dell’intelligenza artificiale o di come sta cambiando il mondo del lavoro con l’uso della Robot Process Automation. Eppure, la tecnologia sta dominando le nostre vite.
Questa discussione dovrebbe continuare e spero che anche altri vogliano dare con il loro contributo, certo siamo pochi e dispersi in una diaspora ma nella società ogni giorno ci imbattiamo con persone di sinistra sia che si dichiarano tali, sia perché pur non dichiarandosi tali condividono un malessere verso il neoliberismo e valori a noi vicini. Spero che tutti a sinistra ci si renda conto che sia necessario superare quel “settarismo” che spesso impedisce perfino di comunicare nella convinzione affatto utile che “la mia organizzazione è migliore della tua” per rimanere confinati nell’irrilevanza. Spero che si smetta di recriminare ad altri scelte passate errate con il risultato che abbiamo tutti qualcosa da attribuire sul passato degli altri anche se le persone e le situazioni storiche sono completamente mutate.
Questa discussione può e deve diventare lievito che rigenera la sinistra e lo schieramento democratico, un lievito che viene da lontano e che è in grado di creare nuovo impasto, di farlo crescere, di trasformarlo lasciando intatto ciò che di importante è presente nel lievito ma dandogli nuova vita.
La pandemia lascerà macerie sociali, quando metteremo fuori la testa dalle nostre case ormai vaccinati e con la dichiarazione di pandemia finita non troveremo il Paese che abbiamo lasciato un anno fa. Non troveremo il mondo che abbiamo lasciato un anno fa. Credo che la pandemia abbia accelerato quel processo di presa di coscienza della società che lo stato e il ruolo della collettività sia indispensabile per la vita dei singoli, che le persone abbiano preso coscienza che non sia vera l’affermazione della Tatcher “non esiste la società, esistono solo individui” ma anzi che la società è lo strumento che ha trasformato la razza umana da gruppi familiari in cerca di cibo con una clava in mano in una incredibile forza in grado di dominare il suo futuro, la natura, di costruire benessere per tutti. La sinistra è il soggetto che rappresenta, costruisce e organizza le persone in società giuste per tutti; dobbiamo uscire dal sonno di questo quarantennio e tornare a fare ciò per cui più di un secolo fa i socialisti hanno cominciato ad organizzarsi per trasformare il mondo e in buona parte riuscendoci.