“Un partito sbagliato” di Antonio Floridia (Democrazia e organizzazione nel Partito democratico, Castelvecchi, euro 17,50, postfazione di Nadia Urbinati) è il libro che tutti noi dovremmo leggere, ripetere e imparare a memoria. Noi chi, si dirà, senza ancora sapere che già l’indefinibilità crescente di quel “noi” era, dall’inizio, un sintomo del male. Noi di sinistra, certamente. Noi che abbiamo creduto nel Partito democratico, noi che abbiamo fondato il Partito democratico. Noi “scissionisti” certo, che a un certo punto ce ne siamo andati, e non solo perché non ci piaceva un leader, ma per l’impossibilità di cambiare una politica che conduceva la sinistra alla sconfitta e consegnava l’Italia ai suoi avversari. Ma non solo: tutti noi che non ci nascondiamo che davanti alla nostra sconfitta non ci sono risposte consolatorie. Noi che pensiamo che non basterà cambiare le facce. Noi che non cerchiamo scorciatoie. Noi che guardiamo in faccia la realtà. Noi che pensiamo, qualunque simbolo abbiamo votato o ci accingiamo a votare, che il destino della sinistra nei prossimi anni dovrà essere un destino di “ricostruzione”. Ricostruzione di quel “noi”, prima di tutto. Ricostruzione nella verità su quanto abbiamo fatto, di giusto e di sbagliato.
Dovremmo forse leggerlo a partire dalla fine, noi persone informate dei fatti soprattutto. Apprezzare l’esattezza rigorosa con cui viene documentata e raccontata l’ultima fase della vita del Partito democratico, quella in cui le premesse sbagliate su cui era stato fondato arrivano al loro compimento. E i tentativi di correggere quegli errori, durante la segreteria Bersani, e le ragioni per cui non sono stati corretti, e le conseguenze del non averlo fatto. E ripercorrere la trasformazione di un partito nato all’insegna delle parole d’ordine della contendibilità, della post ideologia e della partecipazione in un luogo in cui la democrazia si fa comando e il decisionismo paralisi, subalterno alle narrazioni dei suoi avversari, strutturalmente incapace di gestire qualsiasi pluralismo e di correggere la rotta per salvarsi dai suoi errori.
E poi tornare indietro, per comprendere che gli errori della fine erano nelle premesse dell’inizio e nessuno di noi ne è immune, anche se non tutti ne siamo responsabili allo stesso modo. Premesse, appunto, di un “partito sbagliato” nelle regole e nella forma che aveva scelto di darsi. Altro che la retorica del ritorno allo “spirito originario”, Lingotto o meno. Non è una promessa non mantenuta, il Pd; è una premessa sbagliata. La struttura aperta è diventata modello plebiscitario; la contendibilità è diventata armistizio delle oligarchie, la post ideologia è diventata evanescenza. E come spiega Floridia, non avrebbe potuto andare diversamente, anche se c’era modo (e c’è stato modo) di interpretare al meglio o al peggio le regole figlie di quelle premesse sbagliate.
Studioso e militante (è stato nella commissione riforma dello Statuto del Pd), Floridia si chiede in conclusione se il Pd sia “riformabile”, ma si astiene dal dare risposte che sarebbero inevitabilmente politiche. Quello che è certo è che il partito più grande della sinistra è vittima del suo “comma 22”: per cambiare le proprie regole dovrebbe avere altre regole. Con queste, non può farlo.
Ma un partito ci vuole. I partiti forti fanno le democrazie forti, come scrive Nadia Urbinati nella postfazione. E non è scritto da nessuna parte che i partiti possano essere solo carrozzoni nostalgici o comitati elettorali “liquidi”. C’è vita, fuori dal provincialismo italiano. E noi, i “ricostruttori”, possiamo dimostrare di aver almeno imparato la lezione: mai costruire un partito senza avere un’idea chiara (e possibilmente non sbagliata) di come dovrà funzionare.