Il lavoro tradizionalmente inteso tende a trasformarsi o a scomparire: ci sono robot che sostituiscono il lavoro manuale e server che sostituiscono quello intellettuale. Nuove grandi diseguaglianze generano sofferenze e rancori. La crisi del lavoro costituisce parte essenziale della più generale decadenza della democrazia e della libertà nella società globalizzata. È possibile invertire questa svolta epocale per riprendere il cammino della civiltà, dell’umanità?
A questo interrogativo cerca di dare risposta il volume di Ernesto Paolozzi e Luigi Vicinanza, Diseguali. Il lato oscuro del lavoro. (Guida editori). Il coraggioso e documentato saggio di Luigi Vicinanza, direttore de “Il Tirreno” e già direttore de “L’Espresso”, dal titolo: “Lotta di classe al contrario”, mostra con dovizia di dati come la mondializzazione dei mercati e delle prassi sociali abbiano creato nuove, crescenti diseguaglianze, come la ricchezza sia concentrata in poche mani lasciano sempre più ai margini dello sviluppo un numero crescente di persone generando quell’uomo solo, abbandonato, sulla cui frustrazione edificano le fortune elettorali i populisti e la destra illiberale.
Ernesto Paolozzi disegna un quadro complesso della situazione storica attuale mettendo in connessione la crisi della democrazia con la profonda modificazione del mondo del lavoro, del lavoro tradizionale che tende a scomparire o a trasformarsi radicalmente per il rapido e imprevedibile sviluppo della tecnologia.
Fra i passaggi più originali dell’interpretazione e della proposta politica vi è quello della riconsiderazione del rapporto democrazia-giustizia sociale. “Siamo abituati da secoli a collegare strettamente la crescita della democrazia a quella della giustizia sociale e dei diritti di libertà. Oggi in tanti paesi non è più così. Non sempre la democrazia garantisce nuova giustizia sociale e nuova libertà. È evidente che si allude al fenomeno che vede la democrazia risolversi in una mera procedura, in un meccanismo privo di anima e di sostanza, formalmente perfetto, concretamente non democratico, interpretato da sudditi e non da cittadini. Ciò è evidente soprattutto se si guarda alla profonda crisi della rappresentanza democratica. Alla crescente difficoltà che i cittadini incontrano a far sentire la propria voce sia nell’ambito dei singoli paesi che (in maggior misura) in quello di comunità sempre più vaste e lontane come la comunità europea. Se in tale prospettiva possiamo ragionevolmente parlare di crisi della democrazia per deficit di partecipazione democratica ed eccesso di formalismo procedurale, non bisogna dimenticare che la democrazia deperisce anche per eccesso di democrazia. Si trasforma, spesso, in democraticismo, in iperdemocrazia, in conformismo, in tirannia, potremmo dire, dell’opinione pubblica in un momento della storia nel quale, attraverso internet, nato come strumento di libertà per eccellenza ma spesso tramutatosi in strumento di manipolazione, l’opinione comune rischia di essere drammaticamente manipolata. Un luogo nato per rendere tutti più liberi può capovolgersi in strumento dei più cupi totalitarismi. Cresce una richiesta egalitaria fondata, sovente, sul rancore e sull’invidia sociale: alla richiesta di diritti per tutti, di giustizia sociale, si sostituisce una sorta di rivendicazione narcisistica di ambizioni egoistiche che nulla hanno a che vedere con l’ambizione legittima all’affermazione della propria personalità, rivendicazione che sfocia nell’antipolitica, che trova una rappresentanza politica organizzata in partiti e movimenti che strumentalizzano istinti ferini, tristi passioni”.
Se questa è la condizione attuale, sia pure riassunta drasticamente e volutamente drammatizzata, argomenta Paolozzi, è necessario percorrere strade nuove. “Si può immaginare – scrive – un terreno di confronto fra le grandi tradizioni etico-politiche messe sulla difensiva dalla globalizzazione, terreno dal quale possa germogliare una nuova alleanza, una nuova comunità di destino? Una possibile convivenza che non sogni ingenuamente di eliminare il conflitto senza il quale nemmeno è ipotizzabile la vita, ma che sia in grado di concepire il conflitto come un regolatore di giustizia e di libertà? Se si dovesse immaginare una forza politica – continua – un partito (nel senso ampio di strumento di organizzazione di ideali e passioni) di tipo nuovo, in grado di portarci fuori dalla palude politica nella quale il mondo occidentale affonda ormai da molto, troppo tempo, credo dovrebbe fondarsi su una drastica riconsiderazione della democrazia, su una vigorosa ripresa della questione sociale la quale, per tanti aspetti, coincide con la questione del lavoro, su una rimodulazione del vocabolario dei diritti fondamentali di libertà. In altri termini, combattere gli eccessi della democrazia, costruire una società nella quale la redistribuzione del reddito, della ricchezza accumulata, consenta di “lavorare meno per lavorare tutti”, disegnare nuovi spazi di libertà nell’ambito dei diritti individuali compreso quello per la liberazione dal lavoro nel senso di restituire una rinnovata dignità al lavoratore, considerarsi, per dirla con Kant (e, in certo senso, con il Vangelo) un fine e non un mezzo”.
Senza mai dimenticare che libertà, giustizia sociale e diritti politici si perdono e si guadagnano assieme. Separarle o contrapporle significa fare il gioco di chi vuole distruggerle. Pertanto, argomenta, “la democrazia, e con essa la stessa civiltà occidentale, si svilupperà in senso positivo se migliorerà la qualità della democrazia a discapito di una crescita puramente quantitativa destinata a consumare lo spirito stesso che incarna il movimento democratico. Fondamentale sarà, in questo processo, la risoluzione della grande questione del lavoro come fondamento di una nuova concezione della democrazia stessa. Redistribuire – conclude Paolozzi – il reddito utilizzando la tecnologia che ci libera dal lavoro tradizionale creando nuova ricchezza ora distribuita solo fra pochi ricchi. Lo sviluppo tecnologico non è un destino che ci condanna alla disoccupazione, alla povertà di massa e, dunque, alla perdita della dignità e della libertà”.
Gli spunti di riflessione sona tanti e tutti suggestivi. La questione, ad esempio, della legittimità del conflitto, della forza contro la violenza e le ingiustizie, nel solco della tradizione di Machiavelli, Vico, Hegel, Marx e Croce. Oppure l’analisi delle radici culturali del cosiddetto pensiero unico liberista e utilitarista ben distinto dal liberalismo come concezione etica della vita, radici che affondano nel terreno di una visione ideologica (anche se apparentemente logica) del progresso scientifico che non tiene conto dei progressi compiuti dalla stessa filosofa della scienza, dall’epistemologia più consapevole come ci ha indicato, fra gli altri, Edgar Morin. Da qui il grande equivoco su cui si fonda l’attuale sistema della formazione e dell’istruzione, una tragedia pedagogica fondata sul mito dell’oggettività e della misurazione quantitativa e non qualitativa del merito. Insegnare o ammaestrare, si domanda Paolozzi. Insegnare, naturalmente, nel rispetto della creatività, della libertà, come recita la Costituzione italiana.