Trent’anni dopo il boato di Capaci che squarciò la storia del nostro paese e le coscienze di tutti noi siamo ancora qui a chiederci le ragioni di quelle strage che si portò via il giudice Giovanni Falcone, la moglie, il magistrato Francesca Morvillo, e tre agenti di scorta, Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo.
Sono stati trent’anni molto lunghi, anni in cui si è detto moltissimo, forse troppo, trent’anni di misteri, di interrogativi inquietanti e di verità nascoste.
Trent’anni nei quali le parole sono state importanti ma insufficienti e allora ha ragione don Luigi Ciotti quando dice che oggi non servono più parole leggere, retoriche e commemorazioni: servono gesti pesanti, significativi.
Gli stessi gesti che lo stato ha compiuto all’alba di quel 24 maggio 1992 quando Palermo e noi siciliani ci siamo svegliati, come titolarono le più importanti testate giornalistiche, “con i soldati”.
Senza voler cedere al clamore di certe commemorazioni, né diventare preda di facili retoriche, a distanza di trent’anni abbiamo ancora il dovere, la necessità, di ricordare Giovanni Falcone, di celebrarne il lavoro di magistrato brillante, puntuale, lungimirante, di valorizzare il coraggio dell’uomo che non arretrò di fronte alla mafia.
Una vita, la sua, nella quale la fragilità umana non prese mai il sopravvento sul rigore morale.
Sebbene rimasto solo, Falcone non si voltò mai dall’altra parte.
Molte cose sembrano essere cambiate dagli anni dello stragismo mafioso e, invece, molte sono rimaste immutate.
La mafia, oggi, usa metodi e tempi apparentemente differenti dalla mafia che ci raccontò Giovanni Falcone, diversi sono i modi e i tempi, diversi e per fortuna molto più numerosi ed efficaci anche gli strumenti che la legge ci offre per farvi fronte.
Diversa è anche la consapevolezza di avere di fronte un sistema di potere capillare che viene ancora descritto come un fenomeno emergenziale, ma che invece è, a tutti gli effetti, un fenomeno strutturale di questo paese.
Oggi la mafia si vede meno, paradossalmente fa meno rumore: inabissamento, sommersione, capacità di mimetizzarsi sono solo alcune delle caratteristiche che vengono attribuite alle mafie moderne, e a Cosa Nostra in particolare.
Una necessità dovuta alla reazione dello Stato anche ai fatti del 1992, che si è fatta modalità operativa delle strutture criminali.
Oggi la mafia si vede meno, dicevamo eppure è presente più che mai.
Utilizza il racket delle estorsioni e lo spaccio di droga per mantenere un controllo ramificato del territorio.
Durante i mesi più complicati della pandemia le organizzazioni criminali hanno istituito veri e propri sistemi di welfare mafioso alternativi a quello dello Stato, con risultati che i dati della relazione antimafia ci dicono pervasivi ed inquietanti.
La disponibilità di capitali di provenienza illecita è stato uno straordinario strumento per penetrare ulteriormente nelle fragilità delle comunità.
A questa mafia geo-referenziata si affianca poi “una mafia affaristica, che opera in ambienti economico-finanziari, in aree nazionali e internazionali, agendo nel massimo silenzio, per riciclare i capitali illeciti e accaparrarsi risorse pubbliche”.
Aggredisce, insomma, a tutti gli effetti l’economia legale.
Per fare fronte a un fenomeno del genere non sono sufficienti solo gli strumenti repressivi: servono anche interventi preventivi.
Serve, dunque, ripristinare un legame forte con il territorio che diventi lettura di fenomeni e capacità di costruzione di soluzioni.
Serve un’ analisi accurata e puntuale dalla quale fare discendere strumenti e sistemi normativi per contrastare le mafie che sono sempre più al passo con i tempi.
Serve accanto all’irrobustimento degli strumenti di controllo, all’introduzione di nuovi strumenti repressivi sviluppare un grande piano di investimenti in politiche sociali e di comunità, perché si contrasti il fenomeno della povertà educativa che rende le comunità permeabili, facili prede delle mafie.
Serve tutelare la coesione sociale attraverso il necessario coinvolgimento degli Enti Locali e degli Enti del Terzo Settore.
Serve fare un costante esercizio di memoria, formare e informare non solo gli operatori della giustizia, ma i cittadini tutti, serve ricordare gli uomini come Falcone e gli agenti della sua scorta, ma anche gli uomini e le donne comuni, meno conosciuti ma la cui vita è stata ugualmente segnata da un fenomeno che siamo tutti, ciascuno con i propri mezzi e le proprie possibilità, chiamati a contrastare.
La sfida dell’antimafia non è solo la sfida della sicurezza ma è, soprattutto, una sfida in termini di crescita sociale.
Falcone diceva che l’impegno dello stato nella lotta alla mafia era spesso un impegno emotivo, episodico, fluttuante, con l’auspicio che quell’impegno sia razionale, quotidiano, consapevole.
Abbiamo il dovere di farlo se non vogliamo tradire il suo sacrificio, altrimenti il boato di quel 23 maggio sarà stato vano.