- L’economia e la politica mondiale sono ancora condizionati dagli esiti della grande crisi del 2007-08, non diversamente da quanto si verificò dopo il collasso del 1929 i cui effetti furono superati solo con, e dopo, la seconda guerra mondiale. Eventi di queste proporzioni, infatti, segnano la fine della fase di sviluppo precedente, disarticolano i commerci, cambiano gli equilibri e i rapporti di forza tra economie e Paesi, pongono in discussione le specializzazioni produttive, e non è facile ripartire.
Dopo dieci anni dal 2007 la ripresa è arrivata coinvolgendo simultaneamente quasi tutti i Paesi OCSE. Tuttavia ciò non significa che l’economia mondiale sia tornata alla normalità. Al contrario. La crisi del 2007, infatti, è stata l’effetto di una difficoltà strutturale del capitalismo liberista che è ben lontana dall’essere assorbita, per il semplice fatto che nelle condizioni attuali non è possibile.
La crisi ha certificato, infatti, che il sistema non è più in grado di produrre una crescita forte e stabile nel tempo; al contrario, esso ha bisogno di stimoli artificiali creati da una leva finanziaria crescente (debiti) che ha coinvolto e coinvolge famiglie, imprese e interi Paesi (come dimostra la recente vicenda turca), e dalle politiche non convenzionali delle banche centrali, creando così “bolle” e squilibri che rischiano di esplodere in modo catastrofico. Le banche hanno dominato (e dominano tuttora) la scena guidando una finanziarizzazione senza limiti dell’economia. Le imprese hanno smesso di investire e hanno perso completamente l’orizzonte di lungo periodo. La dinamica della produttività è deludente nonostante internet, l’economia digitale, i big data, l’intelligenza artificiale… L’occupazione langue, il lavoro è dovunque svalutato; anche nei Paesi in cui la disoccupazione appare minore, una quantità impressionante di lavori sono precari, a tempo parziale, stagionali, insicuri e pagati poco; del resto, se le imprese sono ormai un asset finanziario, è inevitabile che la compressione dei costi del lavoro e la sua massima flessibilità diventino una priorità. Le condizioni di lavoro diventano sempre più dure, anche per i colletti bianchi e soprattutto per i giovani. I salari reali stagnano, le classi medie un tempo pilastro della stabilità politica e sociale sono state duramente colpite. La diseguaglianza è cresciuta a dismisura raggiungendo livelli elevatissimi che non sono il frutto di meriti particolari o eccezionali, ma di posizioni di monopolio e di estrazione artificiale di valore da parte dei managers e dei mercati finanziari, Nella parte inferiore della distribuzione dei redditi la diseguaglianza si traduce in povertà, assoluta e relativa….
Oltre all’instabilità economica crescente, alla disoccupazione e alla sottoccupazione, le economie contemporanee non sono in grado di gestire il problema dell’inquinamento, del riscaldamento globale e della transizione energetica. Lo stesso si può dire del fenomeno dell’immigrazione.
Al di là della attuale ripresa, quindi, tutte le questioni di fondo rimangono aperte in quanto derivano dal modello di sviluppo che ha prevalso nel mondo nei trent’anni passati, all’insegna del liberismo senza freni e di una globalizzazione non governata. Non a caso, anche oggi, come dopo la crisi del 1929, si discute seriamente di “stagnazione secolare” come prospettiva per le economie occidentali. Sarebbe quindi necessario un deciso mutamento di indirizzo sia nella organizzazione che nella gestione dell’economia mondiale.
- Sul piano sociale e politico la situazione appare sempre più simile a una riedizione degli anni ’30 del secolo scorso. I meccanismi sono identici: la crisi provoca insicurezza, paura, incertezza per il futuro, impoverimento, disoccupazione, sottoccupazione, aumenta le diseguaglianze, cancella il futuro. I governi, oggi come allora, reagiscono con assurde e dannose politiche di austerità. La reazione a livello di massa non può che essere quella di rifiuto, chiusura, della contestazione delle élites considerate responsabili dell’accaduto, della ricerca di colpevoli e capri espiatori, e soluzioni miracolistiche. Ne approfittano i demagoghi, i nazionalisti, i protezionisti, e tutti coloro che considerano inutili, anzi un ostacolo insopportabile, i vincoli posti dai rituali e dalle formalità dei sistemi democratici. Pulsioni autoritarie emergono, l’idea di cancellare le difficoltà usando l’accetta anziché il bisturi si fa strada; la cultura, la scienza, l’esperienza, la conoscenza, vengono negate e irrise a favore di narrazioni semplificate, spesso false fino ai limiti del grottesco, ma ben viste e accettate da masse di persone sofferenti, arrabbiate, e “assetate di sangue”.
In tale contesto, le sinistre tradizionali rischiano di essere spazzate via a favore di nuovi partiti e organizzazioni. Oggi non vi sono Hitler, Mussolini, ecc., soprattutto perché, a differenza degli anni ’30, non c’è lo spettro del comunismo a terrorizzare le borghesie mondiali (i mercati), ma i vari Orban, Erdogan, Putin, Keczynski, Le Pen, Salvini, eccetera sono pronti e desiderosi di svolgerne le veci indicando nemici immaginari e soluzioni radicali, “rivoluzionarie”; e soprattutto prospettando regimi tendenzialmente autoritari in cui le minoranze e le opposizioni vengano represse e umiliate, private di voce e rilevanza, la stampa e la magistratura poste sotto controllo, le costituzioni irrigidite.
Da questo punto di vista alcune pulsioni evidenti del nuovo governo giallo-verde non vanno sottovalutate: l’attacco sistematico alla stampa e ai giornalisti non allineati, al Parlamento, alle sentenze giudiziarie sgradite, l’occupazione della televisione pubblica, le forzature istituzionali continue e spesso inconsapevoli, l’attacco alla democrazia rappresentativa, sono indicazioni chiarissime in tal senso.
Come negli anni ’30, la sinistra rischia di dividersi sulla valutazione della fase e della situazione. Posizioni isolazioniste, nazionaliste e sovraniste esistono anche all’interno della sinistra, sia pure con vari distinguo su singoli punti (immigrazione, diritti civili…), senza rendersi conto che il “pacchetto” sovranista non è divisibile.
In altre parole, oggi la sinistra, o meglio una sua parte, rischia di passare da una subalternità culturale, quella al neoliberismo, a un’altra, ugualmente (e forse più) dannosa, nei confronti del nazionalismo e del sovranismo.
E in proposito non è serio né corretto tendere a far coincidere la doverosa tutela degli interessi nazionali e della sovranità popolare, con le posizioni (e le soluzioni) nazional-sovraniste: si tratta di confusioni alimentate ad arte, che approfittano dell’attuale disorientamento culturale dilagante, ma assolutamente inconsistenti sul piano storico e politico.
- La sinistra quindi, si trova oggi in una situazione molto difficile e costretta a muoversi in uno spazio molto ristretto. Da un lato deve abbandonare l’adesione alle politiche neo liberali e riformulare i propri programmi cercando di fornire di nuovo rappresentanza politica e tutela ai ceti popolari che oggi si sentono abbandonati e si rivolgono alla destra e al populismo. La doverosa tutela e promozione dei diritti civili, e i risultati ottenuti in quel campo non possono più diventare, o essere, un alibi per non occuparsi anche dei diritti e delle sofferenze sociali.
Analogamente, partendo dal contrasto alla globalizzazione, al potere delle banche, alle multinazionali, non si può approdare su posizioni isolazioniste prospettando soluzioni nazionaliste, di chiusura e autosufficienza. Esse appaiono velleitarie e sostanzialmente autolesioniste.
Questo aspetto riguarda soprattutto la questione europea. In proposito, evidente è la strategia di Trump (e anche di Putin): indebolire, fiaccare, e cercare di far saltare l’UE, sostenendo Governi e movimenti nazionalisti e di (estrema) destra, e cercando soprattutto di indebolire la Germania per ricondurla al suo ruolo di media potenza industriale, produttrice di beni tradizionali molto costosi, anche se di alta qualità. Il fatto che gli argomenti e le leve su cui Trump può fare affidamento siano il frutto di errori e prepotenze della stessa Germania, non ci può far perdere di vista la circostanza che la crisi e la rottura dell’Unione rappresenterebbero un danno molto serio per l’Italia, sia sul piano economico che politico. Mentre il Regno Unito si può illudere che con la Brexit la prospettiva di “going global” può essere una soluzione, e mentre la Germania potrebbe sempre ricreare una zona di influenza sui Paesi centro europei, per motivi storici preoccupati dalla possibile ingerenza della Russia, influenza che potrebbe estendersi anche ai Balcani, fino alla Turchia, come già accaduto in passato, l’Italia non avrebbe alternative valide né a livello economico, né politico.
Le posizioni sovraniste della destra sono facilitate dalla possibilità di identificare un nemico nella diversa appartenenza etnica, culturale, religiosa degli immigrati. Dal punto di vista della sinistra ci dovrebbe essere invece la consapevolezza che le politiche più importanti, in campo ambientale, relative alla difesa, all’immigrazione, ma anche alla capacità di contrattazione con altri Paesi su temi economici, al contrasto all’elusione fiscale e quindi allo strapotere delle multinazionali, sono per loro natura sovranazionali. La divisione su come queste politiche dovrebbero essere organizzate non è solo tra Paesi (che tutelano i loro, diversi, interessi) ma passa anche all’interno dei singoli Paesi. Non a caso sia Putin che Trump sostengono politicamente, e forse anche finanziariamente, non singoli Paesi ma movimenti politici antieuropeisti all’interno dei Paesi. In questa situazione non esiste l’opzione di chiudersi ciascuno nel suo Stato sovrano, a difendere la patria, l’identità e i confini, ma esiste invece la necessità di una alleanza sovranazionale tra le forze che vogliono governare questi processi in un’ottica di sinistra.
- La questione europea è quindi decisiva. Ma essa è anche quella su cui oggi più si manifestano contrasti, rancori, incomprensioni e divisioni all’interno della sinistra.
Per quanto la velleità di un’uscita unilaterale dall’euro sia stata (per il momento) accantonata, vista anche l’immediata reazione dei mercati rispetto alle velleità del nuovo Governo italiano, col rialzo immediato dello spread dei titoli italiani, e si punti piuttosto a una progressiva disarticolazione della zona euro, nella speranza di una dissoluzione concordata, resa inevitabile dalle circostanze, la scelta dell’euro viene sempre considerata l’origine principale delle nostre difficoltà. Il che non è, anche se è vero che dopo la crisi del 2007-08, le modalità di gestione della moneta unica, unite alle politiche di gratuita austerità, e alle scelte mercantiliste della Germania, hanno deformato il progetto iniziale rendendolo irriconoscibile, e determinato una crescita stentata di tutti i Paesi dell’eurozona.
In ogni caso l’abbandono dell’euro, unilaterale o concordato che fosse, determinerebbe costi elevatissimi per il nostro Paese. Non converrebbe a nessuno: non ai risparmiatori che vedrebbero falcidiati i loro patrimoni dalla inevitabile svalutazione; non alle banche che rischierebbero in massa il fallimento; non ai pensionati che vedrebbero i loro redditi fortemente ridotti dall’inflazione senza possibilità di recupero; non alle imprese esportatrici che potrebbero essere agevolate dalla svalutazione, ma che, data l’attuale composizione delle catene del valore, vedrebbero aumentare i costi delle componenti acquistate all’estero, non alle altre imprese, soprattutto più piccole, che perderebbero accesso al credito e domanda per i loro prodotti, non ai lavoratori che perderebbero in massa l’impiego e subirebbero gli effetti dell’aumento dei prezzi, non alle grandi imprese che dovrebbero fare i conti con tutti i contratti esistenti denominati in euro, e neppure al Tesoro il cui debito pubblico rimarrebbe in buona misura denominato in euro, mentre la parte restante aumenterebbe (salvataggio delle banche, effetti della inevitabile recessione). In sostanza una catastrofe generalizzata. E allora? Allora bisogna riconoscere che siamo in una gabbia, in una trappola che è stata costruita soprattutto negli ultimi 10 anni e che i nostri governi non sono stati in grado né di discernere né di contrastare anche a causa della debolezza complessiva del Paese e di un conseguente atteggiamento subalterno.
- Invece di recriminare bisogna allora avere la capacità e la forza di “fare politica”. Non chiedere generica flessibilità, come si è fatto negli anni passati per sostenere interventi di breve respiro, ma rispettare i trattati in essere proponendone eventualmente la modifica, avanzare proposte, suscitare dibattiti, creare alleanze, non solo a livello dei Governi, ma sul piano sociale. Occorre evidenziare tutte le situazioni (e non sono poche) in cui il nostro Paese è stato indebolito e danneggiato dalle decisioni dei Paesi “core”. Occorre contestare la leadership tedesca che ha prodotto questa situazione di sfaldamento perseguendo una strategia nazionalista a spese dei partners mediterranei (Francia inclusa). Occorre contrastare anche sul piano culturale le stravaganti teorie economiche ordo-liberiste, prive di ogni dignità scientifica. Occorre chiarire che la stabilità dei prezzi va bene e che l’inflazione va combattuta, ma che se si continua a fare la lotta all’inflazione in tempi di deflazione e stagnazione, si producono disastri. Occorre riaffermare il principio di base su cui fu costruita la moneta unica: una moneta, un tasso di interesse, e quindi contestare la politica monetaria della BCE, imposta dalla Germania e dalla Bundesbank, che ha prodotto un QE poco efficace, dal momento che gli acquisti effettuati non erano mirati a ridurre gli spread, ma li mantenevano pressoché costanti. Occorre contestare il trattamento riservato alla Grecia e al suo popolo, con l’unico obiettivo di salvare le banche tedesche e francesi e dare un esempio. Va riconosciuto che è meglio correre il rischio di “azzardo morale” piuttosto che la certezza della sofferenza gratuita di milioni di persone incolpevoli (ancora il caso greco). Occorre ricordare che la via più efficace per ridurre i rischi è quella di condividerli, come insegna la teoria delle assicurazioni. Occorre riconoscere che la minaccia di Trump di imporre dazi all’Europa non è infondata se a “Europa” si sostituisce “Germania”. Infatti il surplus commerciale tedesco è stato agevolato e in parte determinato dalle politiche adottate per cui l’euro ha funzionato per l’economia tedesca come un marco svalutato cui si è sommata la svalutazione interna prodotta dalle riforme di Schroeder, per cui oggi ogni Mercedes o BMW che esce da uno stabilimento tedesco per essere esportata, beneficia di un sussidio implicito di diverse migliaia di euro. E occorre dire che per ovviare a questa situazione la Germania non può pretendere la solidarietà europea se prima non mette in atto una decisa politica espansiva a livello nazionale, aumentando la spesa pubblica per infrastrutture, riducendo le imposte, ecc. in modo da aumentare non solo il suo PIL, ma anche i prezzi interni sopra il 2%, cioè sopra la media europea, riequilibrando così le ragioni di scambio con i Paesi europei e con il resto del mondo e riassorbendo gradualmente il surplus commerciale esistente, favorendo il benessere e il tenore di vita dei propri cittadini e smettendo di danneggiare quelli degli altri Paesi.
Al tempo stesso però, l’unità europea deve rimanere, finché sarà possibile, un caposaldo delle politiche della sinistra, un cardine e un’ancora cui non è possibile, né utile, rinunciare. Se non sarà possibile, si vedrà.
Del resto, questa è la strategia che in Europa prospetta anche Varoufakis che è un esponente della sinistra critica. Questa strategia va impostata e prospettata fin da subito in vista delle prossime elezioni europee, e su di essa vanno concordate le alleanze elettorali possibili. In sostanza occorre battersi per la modifica delle politiche e dei trattati in base a necessità che diventano sempre più evidenti, e non solo in Italia.
E in verità anche su questi punti la politica del Governo giallo-verde appare carente. Oltre alla torsione nazionalista e alla richiesta di ulteriore flessibilità, per realizzare il programma di governo, non sono state assunte iniziative, o avanzate proposte a livello europeo. Ci si chiude polemicamente su quelli che si ritiene, e non sempre sono, i nostri interessi a breve termine, nel contesto, però, di una assoluta continuità negli assetti organizzativi del Ministero dell’Economia (Finanze escluse).
- Ma al di là dell’euro e dell’Europa la polemica all’interno della sinistra di opposizione presenta aspetti più radicali. Si sostiene che tutti i partiti della sinistra europea siano “corresponsabili della costruzione dell’ordine economico e sociale di svalutazione del lavoro”, e cioè di tutti i disastri avvenuti. Per quanto possano esistere degli elementi di verità nell’analisi che viene svolta, essa va ben oltre ogni ragionevole polemica. In questo modo, infatti, i responsabili della crisi attuale della sinistra diventano tutti i leaders del passato, da Berlinguer, a Occhetto, D’Alema e Bersani, oltre, ovviamente, Veltroni, mentre ex post vengono rivalutate di fatto le posizioni dei no-global, di Rifondazione Comunista, dei centri sociali, eccetera, e si trasforma Renzi in un “capro espiatorio”, in una regressione estremista e massimalista piuttosto ingenua, dal momento che quelle posizioni non ebbero, e non a caso, un grande seguito e successo, mentre oggi esistono forse le condizioni per una ricomposizione delle posizioni politiche se si guarda al futuro invece di polemizzare sul passato.
Dietro queste posizioni è facile comunque intravedere, oltre all’adesione alla moda corrente della ricerca di “colpevoli” su cui scaricare ogni responsabilità, due ragioni di fondo: innanzitutto vi è una banale, ancorché sgradevole, ansia di “rottamazione”; se si eliminano dalla scena i vecchi leaders, e anche il loro ricordo, ci si illude che vi sarà più spazio per i nuovi, peraltro autodefinitisi tali, senza considerare che i “vecchi” stanno già lasciando il campo non fosse altro che per ragioni di età, e che una sinistra che rinnega le proprie radici difficilmente potrà avere un futuro.
Inoltre, l’analisi che viene prospettata difetta completamente di consapevolezza e riflessione storica. Il cambio di paradigma economico negli anni ’80 del ‘900 non avviene a caso: è l’effetto della conclusione della spinta propulsiva del modello di governo keynesiano-socialdemocratico che aveva dominato i decenni post bellici in tutto il mondo, creando piena occupazione, sistemi di welfare, redistribuzione, classi medie solide. Questo modello si era arenato nella stag-flazione, minato da rigidità eccessive e dagli eccessi sindacali, dagli sprechi nelle finanze pubbliche, dalla corruzione nella gestione delle imprese pubbliche eccetera. Il cambiamento era voluto e sostenuto dalle opinioni pubbliche di tutti i Paesi occidentali, ed era espressione anche di una sconfitta culturale delle sinistre accademiche nei confronti delle teorie neoliberiste che poi dilagarono a livello politico con Reagan e Thatcher, cambiando radicalmente il funzionamento dei sistemi economici. Il cambiamento peraltro era funzionale alla nuova fase di sviluppo basata sulla globalizzazione e le nuove tecnologie.
Il risultato fu quello che normalmente produce un sistema capitalistico liberista lasciato a se stesso: concentrazione delle imprese e aumento del grado di monopolio, compressione dei salari, riduzione sistematica di tutti i costi a partire da quello più rilevante, il lavoro, delocalizzazioni, eccetera, con impatti inevitabili e progressivi sulle condizioni di vita e i posti di lavoro in occidente. Incolpare la sinistra (peraltro allora all’opposizione quasi dovunque) di tutto questo è ovviamente eccessivo. Le sue responsabilità vanno piuttosto ricercate nella incapacità di correggere per tempo un modello keynesiano in fase di affanno. Il crollo dell’Unione Sovietica completò il quadro, e la sinistra si trovò a combattere per la propria sopravvivenza, costretta a ripensare, se non a rinnegare, il proprio passato, e venendo a patti con l’avversario di sempre, il capitale. In questa situazione vi sono stati sicuramente cedimenti e subalternità, ma se si accusano le dirigenze di allora di aver capitolato, si sostiene di fatto che l’alternativa dovesse essere quella di resistere in difesa di un assetto superato dai fatti e di un mondo che era ormai venuto meno, cosa che avrebbe comportato l’estinzione della sinistra storica.
Nel 1992 viene firmato il trattato di Maastricht che segna l’adesione europea alle logiche neoliberali. Niente di strano, visto il contesto, e niente di irrecuperabile dato che i trattati si integrano, si cambiano, e anche la loro interpretazione pratica può mutare nel tempo. Oggi si stanno ricreando le condizioni politiche e culturali per procedere in questa direzione. Ciò significa tentare di orientare in direzione utile le spinte e le pulsioni antieuropee e sovraniste, che qualora fossero invece assecondate, porterebbero a un sicuro disastro.
- Per quanto riguarda l’Italia, va ricordato che nel 1980 il debito pubblico rappresentava il 57% del PIL. In 10 anni esso raddoppiò (Governi Spadolini, Craxi, Goria, Andreotti). È la testimonianza della difficoltà e resistenza del nostro Paese ad adeguarsi ai nuovi criteri di gestione neoliberista dell’economia che venivano richiesti. In ogni caso, è allora, e non a causa dell’euro, che il Paese ha perso la sua sovranità economica e finanziaria. Vi fu allora chi, come chi scrive, Bruno Visentini e Marcello De Cecco, prospettò, con la dovuta cautela, di intervenire a ristrutturare un debito pubblico allora interamente in mano alle famiglie italiane. Ma il coraggio e l’accordo per intervenire in quella direzione mancarono, anche per la (scontata) opposizione della Banca d’Italia, e quindi il Paese fu costretto a procedere con politiche di contenimento e privatizzazioni, perdendo così gradi di libertà e leve importanti per la gestione di politiche economiche e industriali efficaci. Del resto non bisogna dimenticare che allora l’economia italiana era caratterizzata da una presenza pubblica sicuramente eccessiva: circa la metà del sistema industriale, il 90% di quello bancario.
Stando così le cose, è difficile immaginare che esistessero politiche alternative oltre al default che fu evitato proprio in virtù della nostra adesione alla moneta unica che provocò la rapida convergenza dei nostri tassi di interesse verso i livelli europei, eliminando uno spread di oltre 500 punti base, creando un surplus primario di 5 punti di PIL, che non impedì nel 2000 una crescita reale di 3,7 punti a dimostrazione del fatto che ciò che conta per la crescita non sono solo le condizioni di finanza pubblica interne, ma il contesto generale in cui operano le economie. L’operazione comportò costi trascurabili: un aumento fiscale una tantum (l’eurotassa, poi restituita) in cambio di una riduzione permanente dei tassi di interesse. La domanda (retorica, in realtà) è: fu un errore per la sinistra partecipare a quei Governi? Sarebbe stato meglio per gli ex comunisti arroccarsi e puntare sul fallimento del Paese?
L’operazione di rientro si arrestò e si invertì con l’arrivo dei Governo Berlusconi, e quindi non esiste la prova che la strategia seguita potesse effettivamente risolvere i problemi finanziari e di crescita dell’economia italiana. Le riforme strutturali vennero declinate in termini di flessibilità del mercato del lavoro, andando oltre le riforme (discutibili) già introdotte dal ministro Treu, di contenimento della spesa previdenziale (peraltro necessario), di taglio della spesa per l’istruzione, lassismo fiscale, deregolamentazioni, affarismo, ignorando altre questioni ben più importanti: il mezzogiorno, la pubblica amministrazione, le infrastrutture, il funzionamento della giustizia, la concorrenza, la corruzione, l’evasione fiscale, la malavita organizzata. Sono i problemi che ancora ci affliggono ai quali si è aggiunta la crescita esponenziale della diseguaglianza, l’impoverimento dei ceti medi, la disoccupazione e la sottoccupazione, tutti fenomeni collegati a una crescita anemica, e al crollo della capacità degli apparati pubblici di orientare l’economia. Eppure le responsabilità, pesanti, del centrodestra, di cui la Lega è stata per decenni parte integrante, sembrano dimenticate, perdonate. E così non ci si accorge che il governo del “cambiamento” ripropone vecchie ricette a partire dal massiccio taglio delle imposte a favore delle imprese e dei più abbienti e dalla connivenza con l’evasione fiscale, denominata pace fiscale.
- La sinistra ha sicuramente delle responsabilità in quanto è successo, ma dimenticare quelle primarie della destra non è accettabile. In particolare la sinistra ha sottovalutato i rischi della globalizzazione che oltre a promuovere e facilitare lo sviluppo dei Paesi da sempre in condizioni di povertà, aveva l’effetto di ridurre i redditi e l’occupazione dei lavoratori dei Paesi sviluppati aumentando diseguaglianza e insicurezza, mentre i profitti restavano appannaggio esclusivo delle multinazionali e degli operatori finanziari. Essa quindi non è stata in grado di proporre un governo del processo. Ma non è certo dai Governi della destra che sono venute proposte e soluzioni per affrontare i problemi di fondo dell’economia italiana, a partire dalla frammentazione del processo produttivo, dalla stagnazione della produttività, dalla difficoltà ad appropriarsi dei nuovi processi tecnologici, mentre su questi Governi pesa la scelta del de-finanziamento dell’istruzione, compresa quella universitaria, l’abbandono progressivo della sanità pubblica, l’incapacità di adottare programmi sociali di ampio respiro in campi cruciali come la povertà e la non autosufficienza.
Per quanto riguarda la sinistra italiana, un elemento reale di autocritica dovrebbe essere la modalità con cui è stato costruito il Pd, proprio nel momento in cui l’esplosione della grande crisi rendeva evidente la necessità e l’inevitabilità di una svolta radicale nelle politiche fino allora seguite. Con il Pd si è costruito (post mortem) un partito moderato di centrosinistra, privo di identità politica, che si ispirava al Partito Democratico americano, mettendo insieme modelli organizzativi incompatibili, con la conseguenza di rendere il clientelismo, la corruzione e il potere di notabili locali un elemento costitutivo del nuovo partito. Le modalità di elezione del segretario, inoltre, anticipavano un modello leaderistico e populista vanificando il dibattito interno. Tutto ciò, insieme all’errore di aver fatto durare il Governo Monti ben oltre il tempo necessario per varare le misure straordinarie (provocate dalla incapacità di governo della destra), e una subalternità di parte della classe dirigente del Pd, poi confluita nel renzismo, alla visione della cosiddetta “agenda Monti”, ha fornito un contributo rilevante alla nascita e al rafforzamento dei 5 Stelle: opposizione poco incisiva nei confronti delle degenerazioni affaristiche e sul piano etico della destra, perdita di contatto con i ceti popolari, adesione sempre più acritica al neoliberismo, contrasto con i sindacati, fino alla recente deriva renziana. Le difficoltà in cui si dibatte il Pd oggi sono figlie di questa storia; la paralisi politica e progettuale deriva dalla divisione dei gruppi dirigenti, incerti tra due diverse visioni del mondo e tra prospettive oggi non conciliabili: quella liberal-liberista e quella neo-socialdemocratica. Da ciò dipende l’incapacità di autocritica, la convinzione che le politiche messe in atto fossero comunque corrette. E vi è anche una difficoltà evidente ad abbandonare il potere e ad investire su gruppi dirigenti rinnovati. E in alcuni vi è il timore che spostando più a sinistra la linea politica, possa aver inizio una deriva verso un radicalismo inconcludente tipico di una certa tradizione della sinistra italiana. In ogni caso è arrivato il momento di valutare l’opportunità di una separazione tra le due componenti del partito: quella neoliberale, e quella che si rifà alla storia del movimento operaio italiano, salvo trovare accordi di collaborazione politica futura.
Comunque è da qui che bisogna ripartire, guardando al presente e al futuro e non solo al passato, spesso guardato attraverso lenti deformate. Esistono le condizioni per correggere se non capovolgere la deriva degli ultimi trent’anni. Le difficoltà sono molte, dato che la sinistra storica ha costruito i suoi successi nel dopoguerra facendo leva sugli stati nazionali i cui poteri sono stati dimidiati dalla globalizzazione.
La risposta deve avvenire sul piano culturale, politico e organizzativo, quindi non può essere (solo) nazionale. Ed è su queste basi che si può tentare una ricomposizione della sinistra italiana nel suo complesso.
Va innanzitutto riproposta la critica al capitalismo liberista e alla sua legittimità storico-politica come avvenne dopo la crisi del 1929. Le tematiche socialiste vanno riproposte come alternativa all’individualismo liberista e come possibilità di organizzare una società più giusta, coesa e solidale. L’identità della sinistra coincide con la lotta contro le diseguaglianze. La battaglia va condotta a livello nazionale e internazionale. Occorre giungere alla saldatura tra pensiero socialista di origine marxista e socialismo cattolico, in quanto le fonti di ispirazione sono le stesse: a ben vedere, le differenze originarie di fondo riguardavano principalmente la questione della proprietà privata, questione che oggi appare superata, tanto più che oggi la contestazione della proprietà privata, come fonte di monopolio e diseguaglianza, è al centro della riflessione di studiosi americani di ispirazione liberale (non liberal). Mentre l’aumento delle diseguaglianze, le derive xenofobe, lo smarrimento e l’emarginazione di fasce crescenti della popolazione, evidenziano con forza la possibilità di un terreno comune in cui la tradizione autenticamente solidaristica cattolica possa saldarsi con gli ideali autenticamente socialisti. Insomma non vi è motivo per cui i cattolici democratici italiani debbano ancora sostenere di non volere “morire socialisti”, o pensare addirittura alla creazione di un loro partito.
Si tratta quindi di creare un partito socialista moderno e non di riproporre pedissequamente forme politiche e organizzative che vengono dal passato.
La crescita economica va rilanciata sulla base di nuovi assetti di cooperazione internazionale, riproponendo la proposta keynesiana di una moneta sovranazionale per i pagamenti internazionali, ridimensionando l’ipertrofia dei mercati finanziari, riassorbendo i debiti pubblici, e ponendo la transizione energetica al centro del nuovo modello di crescita. Il processo di liberazione dal lavoro (gravoso) va proseguito facendo leva sulla IA, ma collegandolo ad una riduzione dei tempi di lavoro.
Sul piano organizzativo va costruito un partito articolato sul territorio capace di confrontarsi giorno per giorno con i problemi dei cittadini, ma anche in rete capace di dialogare continuamente con i propri iscritti e con i cittadini, senza l’autoritarismo della piattaforma Rousseau, e senza l’illusione della democrazia diretta che avrebbe inevitabilmente un esito reazionario.
Va rafforzato l’impegno per i diritti civili, a partire da quelli che hanno informato le principali convenzioni internazionali.
Va data centralità al ruolo delle donne nella vita politica. E questo richiede una ormai indifferibile presa di consapevolezza da parte della componente maschile della popolazione, a partire da quella di sinistra, delle profonde discriminazioni con cui le donne debbono ancora confrontarsi, non solo sul mercato del lavoro, ma anche in campo domestico, con una sperequazione insopportabile, nella sua astoricità, della distribuzione dei compiti di cura e domestici tra uomini e donne. Il tema del contrasto alla violenza maschile nei confronti delle donne, a partire da quella che si esercita fra le mura domestiche, deve essere considerato centrale. Su questi temi il nuovo diritto di famiglia di cui parla il Governo giallo-verde (anche nel contratto) sembra prospettare una svolta fortemente regressiva, nell’indifferenza generale.
Uno spazio particolare deve essere dato alla iniziative per e dei giovani, costretti a vivere nell’ansia di un lavoro precario, di una possibilità di autonomia compromessa da ragioni economiche e da politiche abitative finalizzate a favorire la proprietà e ignorare l’affitto, da un sistema pensionistico che li priva di un futuro tranquillo, da un sistema di istruzione chiuso, non solo ai meno abbienti, ma anche attraverso numeri chiusi realizzati con test- lotterie, nell’assenza di una vera programmazione delle esigenze professionali del nostro Paese. Da questo punto di vista la riqualificazione della pubblica amministrazione richiede l’assunzione sollecita di migliaia di giovani qualificati.
Vanno valorizzate esperienze di aiuto diffuso sui territori per fornire assistenza legale, sanitaria amministrativa alla gente comune, spesso inconsapevole e smarrita di fronte alle difficoltà di una società sempre più complessa, e incapace di far valere i propri diritti, secondo l’esempio di Syriza, e di Potere al Popolo. Bisogna creare centri di istruzione permanente per giovani e anziani.
Bisogna avere una politica dell’immigrazione, il che significa ingressi pianificati in base alle necessità e alle possibilità, con la dovuta fermezza, ma sempre nel rispetto della dignità e del bisogno. L’immigrazione non è un diritto, ma neanche una colpa e men che mai un delitto. Sul terreno nazionale, il contrasto duro al caporalato e allo sfruttamento della prostituzione di giovani donne immigrate, assistito da misure di regolarizzazione di chi vuole affrancarsi dalla schiavitù, potrebbe sterilizzare un canale di alimentazione di immigrazione irregolare. Sul piano europeo è evidente che la definizione di politiche comuni coi Paesi del Mediterraneo potrebbe cambiare radicalmente il quadro in cui ci troviamo.
Va promossa una lotta continua e decisa contro i nuovi grandi monopoli, sia tra le imprese del web che nella finanza (banche), e negli altri settori rilevanti, e va contrastato il potere di monopsonio delle grandi imprese nei confronti del lavoro. Va riconosciuto quindi il ruolo fondamentale dei sindacati in base a una legge sulla rappresentanza. Va regolata per legge l’attività dei partiti, limitato ai minimi termini il finanziamento privato e reintrodotte forme controllate di finanziamento pubblico.
Sulle politiche europee si è già detto. La battaglia di critica e proposta deve essere ferma e continua. Esse andrebbero comunque integrate con interventi europei consapevoli a tutela dei posti di lavoro, tenendo presente che forme limitate e concordate di protezione sono inevitabili in un contesto come quello che si è creato negli ultimi decenni, Anche Macron aveva inizialmente prospettato interventi in questa direzione. Va però contestato l’approccio protezionista unilaterale, basato sui rapporti di forza a breve termine e sulle ritorsioni seguito da Trump. Si tratta invece di introdurre un governo consapevole e multilaterale della globalizzazione e del suo attuale riflusso.
Sulle politiche economiche interne, come hanno dimostrato le proposte e le simulazioni di Nens, esiste la possibilità concreta di aumentare in modo consistente la crescita (e quindi l’occupazione) senza compromettere al tempo stesso la stabilità del bilancio e la riduzione del debito pubblico. Fingere che debiti e disavanzi non siano un problema è una illusione infantile. Si possono effettuare spese di investimento in deficit, ma esse devono essere in grado di autofinanziarsi, In proposito è utile fare riferimento ai numerosi scritti di Pierluigi Ciocca.
Le politiche del Governo giallo-verde vanno contestate non solo perché hanno un impatto redistributivo perverso, ma anche perché pongono le premesse per una deriva pericolosa dei conti pubblici che avrebbe effetti economici molto pesanti. Ancora una volta va ribadito che un rilancio economico consistente, duraturo e generalizzato non può essere attuato in un solo Paese. Può non piacere, ma è così.
Occorre rendere più progressivo il sistema fiscale introducendo una imposta personale progressiva sulla ricchezza (Piketty), riducendo l’evasione fiscale di massa (e non solo la “grande evasione”, concetto di impossibile o incerta definizione), promuovere accordi internazionali per eliminare la scandalosa elusione delle multinazionali, superare il sistema contributivo per il finanziamento del welfare tassando l’intero valore aggiunto e non solo i redditi da lavoro.
Per quanto riguarda il lavoro, le proposte esistono numerose. Va comunque posto sul tappeto, come si è detto, soprattutto a livello internazionale, il problema dei tempi di lavoro che nei prossimi decenni può diventare centrale. In prospettiva lo sviluppo della IA può portare effettivamente alla opportunità di introdurre un vero reddito di cittadinanza (cioè non condizionato) dal momento che molti lavori sono destinanti a scomparire, e quelli che si creeranno nei servizi saranno di bassa qualifica e ridotta retribuzione. Un reddito di cittadinanza da finanziarsi con un’accurata redistribuzione del valore aggiunto prodotto dall’innovazione tecnologica.
La questione di fondo è che la ricchezza collettivamente prodotta, con il contributo di imprese, lavoratori, managers, scienziati, governi, va ripartita tra tutti, e non diventare appannaggio di pochi. Per questo occorrono forti poteri pubblici, e questo è il messaggio fondamentale che un nuovo socialismo deve trasmettere.
Nel frattempo l’obiettivo prioritario per un Paese come l’Italia deve essere quello di creare lavoro attraverso investimenti pubblici e privati, politiche industriali che utilizzino consapevolmente le partecipazioni pubbliche e orientando i finanziamenti nei settori strategici rilevanti (secondo le indicazioni della Mazzuccato), promuovendo la collaborazione tra pubblico e privato.
In sintesi serve un partito nuovo che recuperi tradizioni antiche, che sappia coniugare etica e politica, un partito che si batta per l’eguaglianza, schierato dalla parte dei più deboli, fortemente radicato nella realtà, ma che sappia parlare al popolo, alla gente comune, senza demagogia, ma anche senza l’ossessione del politically correct, un partito riformista che sappia fare a meno, e contrastare, ogni forma di massimalismo ed estremismo, un partito aperto al mondo e alle relazioni internazionali, capace di avere una visione del futuro dell’Italia e del suo sviluppo, basata su una conoscenza frutto di esperienza e di studio e che elabori proposte senza farsi condizionare dalle tattiche della politica di tutti i giorni, un partito capace di difendere la propria identità e i propri ideali e non diventare ostaggio delle mode culturali prevalenti, un partito che abbia una politica dei quadri rigorosa, esigente e intransigente, consapevole che solo la cultura, lo studio, la conoscenza, l’esperienza possono aiutare a risolvere problemi molto complessi (e anche consapevole che non sempre tutti i problemi possono essere risolti), e conflitti molto duri, dal momento che gli interessi coinvolti dalle riforme necessarie e oggi prevalenti si difenderanno con tutti i mezzi, a livello internazionale e nazionale.