Stiamo assistendo, per certi aspetti, a un fenomeno surreale. Nell’ostinato tentativo di rincorrere le periferie, i fenomeni periferici e la sofferenza sociale, taluni hanno deciso che i cosiddetti ‘ceti riflessivi’ (ceto medio impiegatizio, insegnanti, ricercatori, operatori del mondo della comunicazione e dei servizi, professionisti) in qualche modo danneggino con la loro stessa presenza la sinistra. Siano di inciampo al tentativo di recuperare strati sociali più disagiati e ‘ultimi’. Si frappongano ostinatamente tra sinistra vera e ‘popolo’ (qualunque cosa voglia significare il termine). Quasi che la crisi della sinistra dipendesse da loro, quasi che le professioni intellettuali distogliessero dal concreto lavoro sociale, e rendessero la sinistra una sorta di ‘club’ radical chic di meri agitatori mentali che rivendicano ‘diritti’, piuttosto che propendere per un ‘movimento’ reale vero e proprio. Crediamo che uno dei motivi della crisi della sinistra, in realtà, sia proprio la denigrazione che nel corso del tempo ha colto gli operatori intellettuali, quasi fossero del tutto accostabili e assimilabili alle élite in senso proprio, quelle che dimorano nel celebre 1% potente e danaroso di cui tanto si parla. C’è tutto un lessico a testimoniare una sorta di disprezzo: radical chic, appunto, ma anche ‘buonisti’, sinistra pariolina o trullallero, sinistra al caviale, sinistra gne gne e via discorrendo, in una specie di gara al biasimo sempre più accesa e sempre meno avvincente.
Intanto, sarebbe davvero sciocco e insensato scacciare dal proprio campo figure sociali che in questi anni si sentono ancora rappresentate a sinistra, e difendono la linea del Piave nonostante la crisi verticale che l’ha colta. Come se la politica si facesse a escludere e non ad aggiungere, a dividere e non a unire. Parliamo di portatori di sapere, di soggetti dotati di strumenti critici e intellettuali in una fase che vede prevalere il grido, la pancia e l’impulso sociale quasi incontrollato, di figure che hanno ben chiaro un orizzonte di diritti e sono dotate di una utile apertura mentale. Peraltro, la maggior parte di essi vive di uno stipendio medio-basso e svolge un’esistenza tutt’altro che lussuosa. Il ceto riflessivo in realtà incarna un capitale umano, è portatore di risorse intellettuali e morali indispensabili a far politica in un’epoca di relazioni, comunicazione, reti ad alto tasso di contenuto intellettuale. Ovviamente, non si tratta di contrapporre i ceti intellettuali agli strati sociali più disagiati, che oggi sembrano aver voltato la testa alla sinistra. Ma, al contrario, di creare le condizioni affinché il capitale umano faccia blocco organico con i ceti e le classi dove alberga maggiore sofferenza sociale e dove la protesta e la critica spingono verso Lega e 5stelle.
C’è poi una considerazione da fare. E riguarda la politica come lotta di egemonia, come scontro tra visioni del mondo all’interno delle ‘casematte’ e delle istituzioni sociali e culturali di cui si compone lo Stato ‘allargato’. Oggi si dice sbrigativamente ‘narrazioni’, ma dovremmo parlare di battaglia delle idee, confronto ideale, scontro per penetrare nel senso comune dei cittadini. Siamo in una fase in cui questo senso comune è ghermito della destra e in cui si diffondono parole d’ordine sempre più “crudeliste” e intolleranti. La lotta per l’egemonia, almeno in questo momento, è persa per la sinistra. Per questo, per riattivarla, per spostare opinione pubblica, per ricreare le condizioni culturali di un rinnovamento e di una rinascita a sinistra, il compito degli intellettuali, del capitale umano, dei ceti riflessivi, dei portatori di formazione e di sapere è quanto mai decisivo. Avrete notato, al contrario, come gli intellettuali siano sempre meno amati, e come la spinta a destra abbia lavorato per rompere le forme di mediazione, la discussione pubblica, il dibattito politico, il linguaggio del dialogo, la rete dei saperi, e favorire così il ‘rigurgito’ sociale, trasformando la sacrosanta critica in una rissa elettoralmente manovrabile. Piuttosto che seguire questa strada, allora, si tratta di ridare corpo a idee, ideali, narrazioni, saperi che sappiamo bilanciare l’immediatezza degli impulsi sociali, riprendendo la strada nelle istituzioni (non solo la scuola, i giornali, i media, ma i social, e poi ogni altra casamatta la cui conquista sia di aiuto a riprendere quota politica, a rimodellare i profili culturali). Non basta ripenetrare concretamente nei quartieri e nei luoghi di lavoro con una nuova comunità di partito, se non si ribalta l’orientamento del dibattito pubblico, se non si dà l’abbrivio invece di inseguire, se non si è avanguardia invece che codisti. La sinistra nasce per cambiare, rivoltare, non per essere cambiata o rivoltata.
Ma qui c’è una bizzarria. Stare in mezzo alla gente, si sente spesso dire. Tornare a rappresentare il nostro ‘popolo’. Eppure non c’è nulla di più paradossale di questa affermazione. Il PD ha 6 circoli nel VI Municipio di Roma (Tor Bella Monaca, per capirci) a testimonianza di un certo insediamento locale, anche antico, eppure è il partito che sconta le maggiori difficoltà elettorali, la maggiore ‘lontananza’ dalla periferia. I partiti di governo, invece, a partire dalla Lega, in borgata non hanno alcun insediamento reale (tanto meno nel meridione) ma raccolgono moltissimo voto ‘astratto’ e di opinione. La stessa Lega, che passa per partito tradizionale, insediato, quando va al governo usa strenuamente l’arma dei social, degli annunci e delle dichiarazioni mediatico-televisive, come se fosse un partito di plastica qualsiasi e via Bellerio una sorta di loft. Il simbolismo mediale è, dunque, vigorosamente al centro dell’azione politica, l’aggressione comunicativa è davvero il bastone rabdomante del consenso, e mostra come sia assolutamente ‘ideologica’ l’esortazione ripetuta di “andare al popolo”, che pure costituisce la Bibbia populista di destra e di sinistra. Anche tra i populisti c’è un lavoro di modellamento sociale e culturale (non solo la ‘pancia’), c’è il ricorso a simboli ed espressioni comunicative, c’è un lavoro di mediazione persino sofisticato a onta della rozzezza del claim (gli immigrati in crociera). E c’è una lotta per l’egemonia che risulta oggi alquanto vittoriosa. Ciò ingenera il forte sospetto che questa battaglia comunicativa pesi molto sul piano politico, quasi più dell’‘insediamento’ locale, e che la “narrazione” decida più della presenza fisica nei quartieri, per quanto massiccia o storica. Specifichiamo: non per ‘vincere’, ma per tornare a ‘rappresentare’ le correnti di opinione, le figure sociali, le forze produttive, la sofferenza sociale.
Senza il voto di opinione, senza un riflesso culturale sul voto, senza l’occupazione simbolica dei canali mediali e social la politica oggi sarebbe, alla prova dei fatti, monca e incompiuta. Ecco perché le regole della comunicazione-politica impongono di cimentarsi anche in questo spazio, non solo in quello fisico, sociale, comunitario, e di intraprendere con vigore la strada della lotta egemonica sui media, nelle istituzioni e persino sui social, novelle ‘casematte’ gramsciane. Lo Stato allargato oggi si estende persino a Twitter, se è vero che un diluvio di tweet scende ormai copiosamente dai vertici istituzionali ed esecutivi verso un ‘popolo’ blandito, vezzeggiato, temuto nei sondaggi, ma ridotto nella sostanza a utente social. In Italia, così come negli USA trumpisti. Un diluvio che è a tutti gli effetti strumento di governo e che chiede quindi una controffensiva politica, culturale, mediale, esige risorse ‘narrative’, ideologiche e quindi figure avvezze a questa ‘militanza’, ceti riflessivi, intellettuali, operatori della cultura, non solo militanti e comunità concrete pur dentro un auspicato e rinnovato insediamento sociale della sinistra. Ciò, a memoria del paradosso prima enunciato, per il quale a una maggiore presenza di sedi e circoli non corrisponde proporzionalmente un vantaggio elettorale effettivo, anzi. Sarà per questo, per questo vischiose bizzarrie della politica/non-politica contemporanea, che la strada appare così in salita, difficile, contraddittoria, ma da percorrere necessariamente fino in fondo.