Sembrerebbe che la questione regionalismo differenziato, che si intreccia con l’utilizzazione dei fondi Pnrr, stia tornando alla ribalta. O almeno questa è l’impressione (la “paura”?) di alcuni autorevoli commentatori, da Viesti a Bianchi, e altri ancora, che in questi ultimi giorni non hanno fatto mancare le loro analisi su vari quotidiani. Del resto, l’istituzione di una Commissione apposita da parte del ministro per gli Affari Regionali, che sembra stia completando il suo lavoro e un relativo documento, evidenzia che di regionalismo differenziato si continua a parlare, e la volontà del ministro (e del governo?) di procedere su questo argomento. Ma sarebbe saggio, proprio in un periodo di così difficile congiuntura sanitaria, economica, sociale, aggiungere un tema così divisivo e, onestamente, non prioritario per il Paese?
Sicuramente, come ha scritto Gianmario Verona sul Corriere della Sera, una enorme spinta al miglioramento complessivo del Paese, attraverso i tanti miliardi del Next Generation EU ed il relativo Pnrr, sarà data dalla sostenibilità, spesso denotata come Esg (Environment, Social and corporate Governance), intendendo che la sostenibilità va declinata rispetto all’impatto ambientale, sociale ed economico. E allora è “maledettamente” ovvio come queste debbano essere aree di intervento specialmente nel Sud d’Italia, essendo esattamente questo (migliorare la qualità di tutti gli aspetti della vita a partire dai territori meno sviluppati, in tutti i sensi) l’obiettivo per cui la UE ha stanziato un mega-fondo di 750 miliardi di euro.
Ed ecco che l’utilizzo dei 200 e passa miliardi assegnati all’Italia si intreccia con la questione regionalismo differenziato: davvero, “consegnando” più poteri, e quindi più soldi, alle regioni che già sono più ricche e sviluppate, si farebbe l’interesse del Paese?
La discussione va avanti; si intreccia anche con posizionamenti politici “nuovi”, ad esempio di Conte, neo leader dei 5S, che con criticate dichiarazioni, fa sapere che intende “correggere” l’impostazione sostanzialmente meridionalista e la poca attenzione (a suo dire) riservata al Nord del Paese da parte dei 5S. Ma non sarà un caso se, cercando di raccogliere qualche consenso in più in una parte d’Italia in cui i consensi ai 5S sono stati pochi, rischierà di non prenderne molti di più in quei territori perdendone molti, nel contempo, nel Mezzogiorno. Ma, non mi stancherò mai di ripeterlo, a mio avviso esiste un PUN (Partito Unico del Nord), che comprende dirigenti e pezzi di tutti i partiti e delle loro organizzazioni del Nord, sindacati e associazioni di categorie produttive del Nord eccetera). Bisogna avere il coraggio di denunciare questa situazione, e tentare, da parte dei partiti “nazionali”, primo fra tutti il nostro, Articolo Uno, anche con l’appoggio di istituzioni universitarie e centri di ricerca (l’Università di Napoli Federico II ha costituito un Osservatorio sul regionalismo differenziato, a cui danno contributi giuristi, economisti, scienziati di Università di tutta Italia, che intende fornire un punto di vista “scientifico” su questioni economiche e giuridiche riguardo appunto al regionalismo e alla questione meridionale), istituzioni che in questi anni quasi da sole hanno tenuta alta la bandiera della coesione territoriale, della equa distribuzione di finanziamenti, dell’obiettivo di risolvere la questione meridionale, tentare, dicevo, di eliminare o ridurre significativamente il gap Sud-Nord, consentendo a tutte le aree del Paese un adeguato sviluppo economico, civile, sociale, produttivo.
I lavori della Commissione di cui sopra, di cui alcuni quotidiani hanno pubblicato qualche indiscrezione, mostrerebbero comunque una volontà un po’ meno “permissiva” nei confronti delle regioni che chiedono una secessione dei ricchi, come con acuta osservazione l’ha denominata Gianfranco Viesti. Una certa limitazione al numero di materie su cui chiedere maggiore autonomia (rispetto a tutte quelle elencate nel Titolo V della Costituzione); una centralità maggiore del Parlamento, che dovrebbe esaminare gli eventuali accordi Stato-Regione prima della decisione finale, con possibilità di proporre modifiche ed emendamenti, che, se non recepiti, necessiterebbero di una discussione e motivazione ufficiale da parte del governo; la diffusa sensibilità, dopo la drammatica vicenda Covid-19, di sottrarre comunque da eventuali finanziamenti da assegnare direttamente alle Regioni la materia della Sanità, lasciando la ripartizione ancora in capo a decisione comune tra governo e Regioni, con possibilità di rivedere, anche annualmente, i criteri della ripartizione. Piccoli segnali, che vanno nella giusta direzione, ma decisamente insufficienti a mio avviso.
Ad esempio, la materia Istruzione dovrebbe essere tenuta fuori da questo gioco di competenze dirette e di soldi alle regioni (su questo ha lanciato un allarme ed una indicazione Luca Bianchi): più e più volte ho scritto (insieme con colleghi ed esperti più autorevoli di me) che quello dell’Istruzione è un tema da gestire centralmente e nazionalmente: organizzazione culturale; materie e indicazioni su vari argomenti; assunzione del personale; retribuzioni degli insegnanti e personale ATA; sono cose troppo importanti e vitali per un Paese da poter essere trattati in 20 o 21 modi potenzialmente tutti diversi tra loro. Tra l’altro, con l’occasione concessa dal NgEU, bisogna assolutamente colmare i ritardi ed il gap che ci sono in massima parte tra Nord e Sud. Paradigmatico come al solito l’esempio delle scuole d’infanzia e degli asili nido: se, per assegnare i finanziamenti, si continuasse ad utilizzare la spesa storica, o addirittura come pretendono i “ricchi secessionisti”, ad utilizzare nei territori (chissà perché poi a livello regionale e non provinciale o cittadino o di quartiere!) un inesistente quanto anticostituzionale “residuo fiscale”, il divario tra Nord e Sud aumenterebbe e aumenterebbe ancora; non si può stabilire più, ad esempio, che chi ha più asili nido avrebbe diritto e necessità di ottenere più finanziamenti di chi ne ha di meno o non ne ha proprio: il classico effetto San Matteo, per cui “chi più ha più avrà, a chi ha meno sarà tolto anche quello che ha”.
Altri temi su cui a mio avviso Articolo Uno, coinvolgendo e “convincendo” proprio i suoi parlamentari e dirigenti del Nord, può tenere alta la guardia, sono una politica socio-sanitaria valida per tutto il territorio nazionale, come si è cominciato a fare con il ministro Speranza, quasi obbligati dalla drammatica vicenda Covid-19; la realizzazione di infrastrutture e trasporti in tutto il Paese, tralasciando l’antidemocratica ed economicamente sballata teoria della locomotiva del Nord: se si può capire perché organizzazioni di tutti i partiti, di tutti i sindacati, di tutte le associazioni di categoria produttive, vogliono favorire in maniera miope nell’immediato i loro aderenti del Nord, bisogna riflettere sul fatto (paradossale) che se le aziende del Nord potessero davvero fungere da locomotiva (io le ho definite, al più, una serie di vagoni arrancanti che disperatamente cercano di agganciarsi alla locomotiva vera, la Germania), si troverebbero a dover acquistare prodotti e materiali… dalle poche (e comunque costose) aziende del Sud. Oppure preferirebbero mille volte acquistare dalle molte e molto economiche aziende, che so, cinesi? Ecco il paradosso. Pensando di riuscire a trascinare il Sud, in realtà il Nord trascinerebbe la Cina (questo divertente paradosso è stato pensato da due miei amici ed autorevoli colleghi).
In definitiva, l’obiettivo del Next Generation EU, e del Pnrr, è/deve essere, far diventare il Mezzogiorno una seconda locomotiva, essa sì capace di spingere l’intero Paese, insieme con l’altra, quella del Nord. Da soli non si va da nessuna parte. I nostri compagni del Nord lo capiranno. Ma ritengo lo stiano già facendo.