Dobbiamo il concetto di nazionale-popolare ad Antonio Gramsci, nei Quaderni dal carcere, il quale avvertiva la fragilità di una cultura troppo chiusa in se stessa ed esprimeva l’auspicio di un legame più saldo tra cultura e popolo. Poi nel travisamento della ricezione successiva, l’idea di nazionale-popolare ha assunto il senso di qualcosa di minore, secondario, pittoresco. Ora non si tratta di affidare al cinema di Luca Medici (Checco Zalone) un’etichetta; neanche quella nazionale-popolare; una suggestione, tuttavia, che può favorire una chiave di lettura.
In primo luogo, in senso antropologico. Basta osservare la moltitudine impressionante di persone che in questi giorni, dal 1° gennaio, si accalcano per acquistare il biglietto; le sale gremite; gli incassi stratosferici. Buona parte di loro probabilmente partecipano a quelle classifiche che attribuiscono al nostro Paese il ruolo di fanalino di coda in faccende come i libri letti in un anno. Eppure quelle persone vivono l’uscita di un fim di Zalone come un appuntamento a cui non mancare.
Questo interesse, questa partecipazione non possono essere solo il frutto di una strategia marketing. Si avverte un’attesa, forse quella di capire qualcosa di più, sentendosi in grado di farlo, senza troppi sociologismi. D’altra parte quali strumenti sono in grado di parlare, in modo diretto, alla moltitudine? Il Rapporto Censis? L’annuale resoconto sulla Qualità della vita del “Sole 24 Ore”? Son tutte cose, fondamentali, ma per addetti ai lavori. Tra le ambizioni del cinema come mezzo di comunicazione di massa vi è sempre stato quello, il restituire il senso di un discorso pubblico che parla del Paese al Paese. In questo caso, un Paese più vasto, profondo e, per certi versi, sfuggente e invisibile. Offrendo non “il” punto di vista; ma “un” punto di vista.
Uno dei valori della società aperta è il confronto. Ma esso è efficace se coinvolge il popolo non per come si vorrebbe che fosse, per come esso realmente è. C’è nel Paese un’insoddisfatta domanda di politica, ovvero di comprensione dei problemi che il Paese attraversa, che si orienta laddove il Paese avverte lo spiraglio di una fiducia. Questo succede un po’ anche con Zalone. Per questo qualche giornale può uscire con titoli come questo: Checco Zalone, il sondaggio, se fosse un partito varrebbero il 10%.
Uno schietto carattere nazionale-popolare è tanto più credibile nel momento in cui si propone di distinguersi dalle due contestuali tendenze in atto: populismo & sovranismo. Tolo tolo assume a bersagli polemici proprio questi totem di una società ripiegata su stessa, contrastandoli con scanzonati accenti di gogliardica sfida. Evidente la vis antisalviniana. Però, tutti tranquilli, non si sconfigge Salvini con un film, ma nelle urne.
Si dà, in tal modo, un’identificazione. Zalone si pone all’altezza dello spettatore. Lo spettatore si sente coinvolto, compreso. Da un quarto di secolo ormai si parla, con variabili dosi di emotività, di immigrazione; siamo certi sia tutto chiaro? Oppure vi è l’esigenza di capire bene, di capire meglio questo fenomeno destinato a segnare, non una stagione, ma un’epoca? In Tolo tolo non si parla solo d’immigrazione, ma anche, per dir così, del carattere nazionale degli italiani, riprendendo il filone dei personaggi, scafati vili e approfittatori, immortalati da Alberto Sordi, in qualche passaggio imitato anche fisicamente.
Il gioco di specchi, tra realtà e finzione, arriva al punto di riprendere i fatti della cronaca più recente, attraverso alcune “voci” del sistema dell’informazione televisiva come Enrico Mentana e Massimo Giletti. In questo senso, Tolo tolo è un vero e proprio istant-movie.
Il plot: Checco conduce un’improbabile attività di ristoratore a Spinazzola e, in ossequio al Kitsch etno-gastronomico, apre un locale, il Murgia&Sushi, presto travolto dai debiti, dalle carte bollate, dai pignoramenti. Da qui la scomparsa e la fuga, novello Mattia Pascal. Approdo salvifico, l’Africa; Italia un Paese da evitare. L’incontro in Kenya con altre persone in difficoltà, al punto di sentirsi uno dei loro, condividendo con loro, come uno di loro, un viaggio della speranza.
Non mancano gli stereotipi. Il collega Oumar (Souleymane Sylla) è colto e raffinato ammiratore del neorealismo e di Pasolini. Idjaba (Manda Touré) è bella e altera. Il figlio Doudou (Nassor Said Birya) è un bambino dallo sguardo innocentemente spalancato sulla vita. Al contempo, senza sconti è la parossistica descrizione dell’insopportabile melassa consumistica degli abiti firmati o dei cosmetici di lusso, in particolare una certa crema di bellezza platinum. Insieme ad una sfrontata apologia dell’infedeltà fiscale.
Altrettanto sottolineato il carattere vessatorio del modo di porsi dello Stato verso il cittadino. Con una classe politica improbabile di gente che inspiegabilmente si trova ad assumere i più rilevanti ruoli apicali, gestendo un fenomeno di enorme rilievo, come l’immigrazione, in modo surreale, ad esempio proponendo una redistribuzione dei migranti sulla base dei chilogrammi di peso.
Ma anche uno Stato che non tutela i propri cittadini. Mentre il reporter Alexandre, figura non fulgida, con passaporto francese, dopo essere stato sequestrato, viene ordinatamente liberato poco dopo aver telefonato alle autorità del proprio Paese, pronte a pagare il riscatto, Checco, nella stessa condizione, dall’Italia non ottiene neppure un cenno di riscontro.
Quindi la parodia mussoliniana di un fascismo endemico che “come la candida, con il sole e lo stress vien fuori”. Sorprendente la prova di autoironia affidata al cameo di Nichi Vendola.
E ora la domanda: Tolo tolo fa ridere? Alla quale si potrebbe rispondere con un’altra domanda: perché mai Checco Zalone dovrebbe solo far ridere? Piuttosto sembra che Luca Medici stia cercando una strada per il proprio cinema anche a rischio di smentire, in parte, il cliché zaloniano che è andato sin qui affermandosi.
Poi sarebbe bene evitare ogni schemino politicistico. Non solo con Zalone; anche con Zalone. Un film non si iscrive ad un partito. Il tema non è dove collocarlo nella geografia politica. Insensata la discussione se il film sia di destra, di sinistra o di centro. Così come quella sul Politically Correct. Ancor più l’idea che non sia né di destra né di sinistra, in modo da poter riaffermare, ancora una volta, la morta gora qualunquistica. Il tema piuttosto è: ti sei divertito? ti ha fatto riflettere? La comicità è una carnevalizzazione del mondo che serve a sorriderne e, sorridendo, a pensare.
Un fil rouge è la ricorrente idea del sogno, tessuto narrativo che consente di cucire diverse parti. Il finale, in chiave fantasy, con disegno animato. Soggetto e sceneggiatura con Paolo Virzì, Luca Medici questa volta si è occupato anche della regia e della colonna sonora, in collaborazione con Antonio Iammarino e Giuseppe Saponari, inserendo Vagabondo del pugliese Nicola di Bari, che nel film interpreta la figura del padre, La lontananza, L’arca di Noè, sino a Viva l’Italia di Francesco De Gregori, non senza alcune sue canzoncine che contribuiscono a dare a Tolo tolo la forma, anche se un po’ ruspante, del musical.