Non c’è giorno in cui non vada accentuandosi un senso d’inquietudine, come una piega d’ombra che oscura le luminarie di ciò che, per convenzione, diciamo l’Occidente. Un oggetto non meglio identificato che, in una prima approssimazione, possiamo leggere sotto il segno di un nuovo radicalismo di destra. L’internazionale della paura e del risentimento. A partire dall’approdo sul tetto del mondo di The Donald, simbolo dell’uomo bianco disinibito, cultore delle armi, dell’ostentazione più pacchiana della ricchezza, in un misto tra trash e pulp, clamorosamente unfit, vale a dire inadatto, come è stato detto di altri, sul piano della responsabilità di governo. Uno che solo pochi giorni fa ha twittato: “Agli Usa farà bene un po’ di riscaldamento globale” o non sa come è girato, ovvero lo sa benissimo, ma non è in grado di andare oltre le battute di pessimo gusto.
Sino al delinearsi di un blocco di Paesi, in parte mitteleuropei, in parte eredi delle esperienze del socialismo reale dell’Est Europa, in una sovrapposizione che va dall’Austria all’Ungheria, dalla Slovacchia alla Repubblica Ceca, Polonia compresa. I propugnatori delle nuove chiusure. Non senza un vento raggelante di nostalgie neofasciste e neonaziste, destinate a ricevere un’eco sui media con ulteriore effetto-risonanza. Integralismo identitario. Sovranismo. Attenzione, non populismo: destra reazionaria. Sino ai nuovi muri, immateriali, prima ancora che fisici. Eretti contro il mondo e contro l’altro. Un’alleanza planetaria che vagheggia il ritorno al confine come discrimine.
Di fronte a questo scenario, piantato nella Realpolitik, il cinema sembra alla ricerca di altre strade, senza tuttavia mancare di fare i conti con la realtà. The Big Sick, per esempio. Prodotto da Judd Apatow, diretto da Michael Showalter, scritto da Emily V. Gordon e Kumail Nanjiani con una sceneggiatura autobiografica. Lui tassista di Uber, aspirante comico entertainer girovago per cantine off, pakistano alla ricerca di una propria identità laica, con una famiglia d’origine di religione islamica, tanto affettuosa quanto ferma sui principi di una tradizione che lo vorrebbe medico o ingegnere, sino a ingerire nelle sue scelte, predisponendogli un matrimonio combinato, per il quale la madre di Kumail si prodiga inutilmente con rinnovate presentazioni di possibili fidanzate durante le partecipazioni di Kumail al rito festoso del pranzo in famiglia. Di fronte all’indisponibilità di Kumail ad aderire ai precetti, si determina la rottura, con buffi incontri successivi, durante i quali la madre Sharmeen (Zenobia Shroff), ligia al disconoscimento del figlio, rimane in auto, mentre il padre Naveed (Adeel Akhtar) offre al figlio il cibo che lei ha preparato per lui.
Il cuore del racconto è nell’inizio tra Kumail e Emily Gardner (Zoe Kazan), studentessa in psicologia, bianca e bionda, nel momento esatto in cui lei lo interrompe, come spettatrice, durante un monologo che lui tiene sul piccolo proscenio di un Comedy Bar a Chicago. La stessa scena si ripete, a New York, alla fine del film, stabilendo una simmetria narrativa. Segue la loro storia, sino a quando Emily scopre il piccolo santuario delle foto con le mogli mancate di Kumail allestito nella sua cameretta. La relazione s’interrompe. Per riprendere di fronte alla malattia che colpisce Emily. Un fatto che, invece di allontanarli, li avvicina.
Quando Kumail raggiunge Emily in ospedale, la dottoressa Cunningham (Linda Emond) lo scambia per un familiare. Kumail non la contraddice. Lei gli spiega che Emily ha una grave infezione ai polmoni e che deve essere sottoposta a un coma farmacologico. E’ lui ad acconsentire. Chiama i genitori di Emily, Beth Gardner (Holly Hunter) e Terry Gardner (Ray Romano). Stabilisce con loro un rapporto, che in precedenza non aveva avuto, non senza reciproche difficoltà, in assenza e in attesa di Emily. Sono loro ad aprirsi con lui. Nella cognizione del dolore.
La vita è impastata di sentimenti e una politica degna dovrebbe tenerne conto. Non a caso oggi si parla di biopolitica, in ordine alle grandi questioni della vita e della morte, alle faglie, etiche e sociali, in grado di ridefinire, sempre e di nuovo, i campi di ciò che diciamo destra e sinistra. La relazione tra noi e gli altri (demografia/immigrazione). La relazione tra noi e il mondo (identità/globalizzazione). The Big Sick ce lo ricorda. Non è una delle tante Love Story. E’ vita rappresentata con verità, nell’intreccio di esistenze poste sul bivio tra salute e malattia, perdita e salvezza, spersonalizzazione e riconoscimento, sradicamento da sé e radicamento nell’altro.
Il suo merito è quello di non fare della sociologia, di non riproporre stancamente delle formulette, né discorsi edificanti o politically correct. Ma di mostrarci come la metamorfosi della persona, la mescolanza dei destini possa essere, non già una costrizione, non solo una scelta, anche una necessità. In modo asciutto, ricorrendo alle strategie dell’ironia, The Big Sick agisce sullo specifico filmico raccontandoci la storia, autentica, di una coppia che, nonostante tutto, a dispetto di pregiudizi e stereotipi, si forma, facendo proprio l’adagio pascaliano secondo il quale le cœur a ses raisons que la raison ne connaît point.