Su Tim serve una risposta politica prima ancora di un piano industriale

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Non può stupire la situazione di forte incertezza e di indeterminazione nella quale versa il futuro di TIM. Dal periodo di fusione per incorporazione della galassia Stet, Asst/Iritel SIP ed altre in Telecom Italia si sono succeduti sempre assetti azionari e piani industriali che hanno portato a un progressivo depauperamento del patrimonio del Gruppo.

La fusione ha portato sotto uno stesso contesto realtà diverse tra di loro, dall’editoria alle assicurazioni, dall’informatica alla finanza-leasing, dalla formazione alle aziende manifatturiere di settore. Un gruppo molto ampio con anche molte società controllate o direttamente dipendenti nell’ambito delle TLC anche all’estero.

Se questo coacervo che per anni è cresciuto e consolidato ed ha sostenuto fin dalle origini attraverso Stet i conti di IRI, lo si deve sicuramente ad un particolare contesto di mercato monopolistico. L’avvio del processo di privatizzazione ha “svelato” molteplici tesoretti che col tempo hanno appagato le varie governance che si sono succedute .

Sul passato, di cui ormai non possiamo che esser buoni narratori, notiamo la perdurante assenza dello Stato che ha avuto “un piede” nell’assetto azionario oltre alle prerogative di Legge relative alla cosiddetta golden share.

Attualmente, dopo una progressiva deregulation e piena autonomia di azione nella voce e nei dati, ridotta al contesto italiano ed a una società controllata brasiliana, l’azienda si trova – zavorrata ancora dei debiti determinati dalle passate privatizzazioni e gestioni – a far fronte alla volontà di un azionariato estero franco-americano interessato ad “estrarre” ancora valore da quello che rimane. TIM ora è un’azienda che continua – nonostante le innumerevoli difficoltà macroeconomiche e sociali – a ridurre il debito storico dando lavoro a circa 40 mila dipendenti.

Nel frattempo ha in mano il controllo con l’azienda Sparkle di decine di migliaia di chilometri di cavi stesi nei mari di tutto il mondo e di consentire per mezzo di loro a moltissime aziende italiane di crearsi reti private per raggiungere le proprie sedi estere, ma anche molte nostre agenzie nazionali e funzioni di governo. Strategico per le comunicazioni mediterranee il ruolo di TIM-Sparkle tra paesi che anche geopoliticamente sono avversi e non vorrei dimenticare il fatto che ha realizzato, possiede e gestisce il quarto backbone mondiale di Internet per volumi di dati transitanti.

Con Sparkle all’estero e con Noovle in Italia TIM dispone di evoluti Datacenter dove molte aziende private, la sanità pubblica e misteri importanti ospitano i propri sistemi informativi. Tra l’altro Noovle è stata individuata da Google per lo sviluppo dei propri centri computazionali in Italia e grazie anche a questo contesto il raggruppamento di imprese che vede TIM capofila si è aggiudicata la prima fase della gara per il cloud italiano nel mese scorso.

A TIM fanno capo con l’azienda Telsy importanti funzioni di cybersecurity per il mercato ed il Governo.

Infine la rete. Nonostante la privatizzazione, i finanziamenti dello Stato a consorzi privati per sviluppare proprie reti di trasporto per consentire la creazione di una maggiore copertura del territorio e disponibilità di accessi ad alta velocità a tutti i cittadini. Crescente poi il ruolo di CdP che interviene con mano pubblica all’interno anche di assetti azionari concorrenti tra di loro nel mercato delle TLC.

I governi che si sono succeduti dagli anni novanta hanno sempre cercato di proporre una nuova organizzazione ad una realtà che, di fatto, è interamente privata ma che detiene una funzione strategica per l’Italia. Ed è questo il punto sul quale è opportuno focalizzarci visto che si leggono in questi giorni paragoni da parte di molti tra la sorte di Alitalia (bad company e new company) e quella di TIM, a mio avviso completamente diverso nel contesto se non tristemente destinato a copiarne la sorte.

Può l’Italia permettersi di lasciare che le sorti dell’azienda vitale per le comunicazioni siano decise da aziende che vengono da contesti (vedi Vivendi in Francia) dove lo stato ha mantenuto la propria azienda di riferimento nelle TLC (Orange) leader? Può l’Italia permettersi che la propria sicurezza nazionale sia contesa sulla base di logiche profittevoli determinate dall’andamento di Borsa tra un’azienda francese ed un fondo americano che già opera nel settore italiano delle TLC?
Serve una risposta politica, prima di un piano industriale; serve una visione strategica di questo settore o dovremmo aspettarci di dipendere – come per il gas – dalle volontà di altri paesi. Ma per questo settore non c’è l’esigenza di dipendere dall’accesso estero.

Michele Seno

Segretario provinciale di Articolo Uno Treviso