Ho un grande rimpianto. Quello di non essere stato vicino a Giannetto Speranza quel giorno in cui – appena eletto sindaco di Lamezia – gli venne bruciato il portone dell’aula consiliare. Neanche il tempo di festeggiare e i soliti noti già presentavano un conto salatissimo.
Era il 2005, una vittoria mutilata da una legge elettorale bizzarra che non gli aveva consentito di avere una maggioranza assoluta in Consiglio comunale, e il puntuale avvertimento della mafia: la campagna elettorale è finita, o ritorna tutto nei ranghi oppure te la facciamo vedere noi.
Non passa nemmeno un mese che il sindaco viene messo sotto protezione della Guardia di Finanza su indicazione diretta dell’allora Ministro degli Interni Beppe Pisanu, che sin dall’inizio comprende quanto sia pericolosa la partita che si gioca al Comune, la penetrazione delle cosche sin dentro le pieghe più profonde del tessuto cittadino.
Un cammino lungo dieci anni, quello dell’amministrazione Speranza a Lamezia Terme, una delle città più difficili della Calabria e del Sud, che viene raccontata in questo bel libro edito da Rubbettino, un “Una storia fuori dal Comune” con la prefazione di Antonio Padellaro.
Il benvenuto della ‘ndrangheta è solo l’antipasto, l’indice fondamentale di un’esperienza che sarà sempre scandita da una battaglia senza quartiere in una realtà già due volte sciolta per infiltrazioni.
Con un livello di commistione spaventosa tra impresa e politica che la porterà quasi quattro anni dopo la fine della sindacatura di centrosinistra, ad essere nuovamente sciolta.
Lamezia nel decennio di Speranza diventa una città pilota della guerra all’antistato, ospita le giornate di Libera, un festival “Trame” sulla letteratura e la saggistica antimafia, assemblee dell’Anci sul codice degli appalti da cui scaturirà la “Carta di Lamezia”, un processo importantissimo dove viene scoperchiato, con una confessione tanto diretta quanto inedita di un imprenditore coraggioso, il peso insostenibile del racket e dell’usura sulla vita economica della città.
Ma saranno due visite, quella del Presidente Giorgio Napolitano e di Papa Benedetto XVI, a dare a Lamezia una centralità regionale e nazionale a cui era sempre sfuggita, malgrado la sua dimensione baricentrica in Calabria e la presenza di un aereoporto che ha condotto la città ad essere per decenni la porta della regione, pur senza mai agganciare la sfida dello sviluppo industriale, promesso da tutti ma mai realizzato da nessuno.
Questo racconto del decennio di sindacatura ha una forte cifra letteraria, ma è anche la cartina di tornasole di una esperienza collocata nella fase più difficile di transizione della politica italiana, dal berlusconismo in sella, alla breve parentesi del governo Prodi II, alla nascita del Pd all’esplosione del grillismo, al declino dei partiti del centrosinistra esploso contemporaneamente alla grande crisi economica e sociale iniziata nel 2009.
La prima campagna elettorale di Giannetto diventa teatro dello scontro bipolare tra centrodestra e centrosinistra, tutti i leader nazionali in campo in comizi, assemblee, convegni, la seconda assume un carattere prevalentemente civico, dove le liste dei partiti praticamente scompaiono, e la disintermediazione prevale sulla politicizzazione del voto.
Si vota il sindaco, punto e basta.
Queste pagine ci raccontano di una solitudine crescente, di una difficoltà nel rapporto tra le istituzioni – sempre tenuto su un equilibrio molto fragile – che via via diventava sempre più competitivo anche all’interno dello stesso campo politico, della crisi degli enti locali strozzati tra il patto di stabilità, il taglio dei trasferimenti ed una recessione di lunga durata. Nel Mezzogiorno più che in altre aree del paese.
Ma anche di un centrosinistra capace di rappresentare le proprie esperienze amministrative soltanto sotto i riflettori delle grandi città, dimenticando la fatica delle comunità intermedie che sono quelle che soffrono di più la frattura tra centro e periferia, l’assenza di infrastrutture e servizi, la difficoltà di trattenere soprattutto le giovani generazioni che scappano in cerca di riscatto e opportunità.
Giannetto non fa un quadro tutto rose e fiori del suo cammino, descrive in maniera puntuale gli scogli, le titubanze, le mediazioni necessarie, gli errori, i dubbi che hanno attraversato la sua esperienza.
Dieci anni da sindaco valgono trent’anni di politica almeno, nonostante Speranza sia stato per anni un “rivoluzionario di professione” come tanti quadri giovani del Pci che tra gli anni 70 e 80 furono reclutati sulla spinta della contestazione giovanile per dirigere il partito e radicarlo.
La difficoltà della trasformazione da uomo di partito a capo di un’amministrazione “senza partito” si tocca con mano, anche perché la formazione umanistica di Giannetto si scontra con la durezza dell’amministrare, dell’imporre delle scelte, di confrontarsi con la crudeltà dei numeri dei bilanci comunali.
Lo salva una propensione all’umanità che è un tratto mediterraneo imprescindibile, una capacità di entrare in connessione con il dolore delle persone – emblematico l’episodio degli otto ciclisti morti in un incidente stradale -, la determinazione a non farsi sopraffare dagli avversari interni ed esterni sfidandoli con il sorriso e mai con la polemica affilata e diretta.
Abbiamo restituito poco a Giannetto, non solo in quanto persona. L’abbiamo raccontata soltanto quando erano palesi le minacce, quando la scorta arrivava, quando accadevano fatti inquietanti verso di lui e la sua giunta. Abbiamo invece dimenticato di difenderla nelle piccole conquiste ordinarie, dall’arredo urbano alle infrastrutture, dalle scuole rimesse a nuovo alla liberazione degli spazi per la socialità diffusa.
Per me fu indimenticabile una passeggiata – dopo non ricordo quale iniziativa elettorale – con Giannetto e i suoi ragazzi sulla Marina di Lamezia, un lungomare rimesso a nuovo e restituito ai cittadini, intitolato a Falcone e Borsellino. Era una serata ventilata, l’amministrazione come al solito traballava voto più voto meno, e lui mi spiegava quanto le procedure per un’opera che avrebbe restituito il mare a Lamezia erano state faticose, mattoncino per mattoncino, carta su carta, delibera su delibera. Eppure quanto orgoglio, quanta determinazione, quanta volontà di sognare un riscatto c’era in quel racconto di un sud diverso che voleva rimettersi in piedi.
È un libro che ci fa riflettere anche su come la cosiddetta stagione dei sindaci eletti direttamente dal popolo non poteva supplire il default dei partiti organizzati. È la parabola che ciascuna amministrazione ha vissuto, nell’impossibilità di dare impulso a una continuità di classi dirigenti, nella difficoltà della politica di riaffermarsi oltre le sedi istituzionali, nell’appiattimento della gestione quotidiana delle emergenze.
Il sud ha vissuto un momento di crescita civile nell’affermarsi di un nuovo municipalismo, ma nel lungo periodo questo accenno di rigenerazione ha aperto il varco a trasformismi di tutti i tipi, travestiti da un civismo oltre le appartenenze politiche tradizionali e sempre più piegato da un’interpretazione agonistica e clientelare della preferenza unica.
Per questo la solitudine mi sembra il dato prevalente che si affaccia nel racconto di Giannetto, compresa la gag divertente con cui si apre il volume, dove all’indomani della nascita del Conte II e la nomina del nostro Roberto Speranza a Ministro della Salute, gli arrivano – dopo anni di silenzio di un cellulare che non squillava più – decine e decine di messaggi di congratulazioni o persino di raccomandazioni. Per ragioni di omonimia o di appartenenza geografica.
Un modo di raccontare anche quanto l’oblio possa pesare quando esci dal giro, quando non hai più una fascia da indossare o uno scranno da cui parlare.
Perché è vero che non ci si dimette mai dalla politica, ma la sensazione che finito un mandato elettorale non ci sia un luogo dove rincasare, dove poter raccontare agli altri cosa si è fatto e cosa non si è potuto fare, dove insegnare ai più giovani che dare un’ora del proprio tempo al bene collettivo non è tempo sprecato ma qualcosa che riempie una vita , deve essere stata terribile per Giannetto e per tanti come lui.
Oggi Speranza è uno dei tanti “senza casa” che la sinistra ha mollato al proprio destino. Perché scomodo sicuramente, ma anche perché talvolta la generosità non paga e quando perdi una battaglia che si presume collettiva alla fine hai perso solo tu.
C’è un passaggio che mi riempie di amarezza, quando verso la fine del suo mandato – appena sei mesi – viene chiesto a Giannetto di mollare per un po’ il comune e gettarsi nelle primarie del centrosinistra per la regione Calabria. Era il 2014. Lui era contrarissimo, non aveva avuto il tempo di pensarci e organizzare alcunché, temeva una figuraccia che avrebbe compromesso persino la parte finale della sua vicenda amministrativa. Lo avevo visto provato anche sul piano fisico e psicologico. La segreteria di quella che ancora all’epoca si chiamava SEL convocò una riunione nel mio ufficio di capogruppo alla Camera, per convincerlo a candidarsi, garantendogli massima solidarietà e sostegno.
Lui mi chiamò poche ore prima per chiedermi di partecipare a tutti i costi all’incontro, per aiutarlo a persuadere i miei compagni che non era giusto fare quella competizione, che in quel momento era meglio preservarlo da una battaglia che non sentiva come sua e verso la quale era profondamente riluttante. Il suo non era un ammutinamento, ma un’analisi lucida dei rapporti di forza in campo e del rischio di gettare nel tritacarne un decennio di buona amministrazione. Non partecipai a quella riunione, ero preso dai lavori d’aula, si discuteva il Dl Boschi sulle riforme costituzionali – la battaglia di un’intera legislatura – e quella mi sembrava la cosa più importante, la priorità delle priorità, il resto, compreso il destino di Giannetto, veniva dopo.
Sbagliai, non fui suo amico in quel frangente, non capendo che talvolta la politica può fare anche del male alle persone.
Lui accettò senza entusiasmo e con uno spirito di disciplina encomiabile, da vecchio comunista, ma le cose andarono come lui stesso aveva profetizzato. Malissimo. Seguirono anni difficili, di isolamento e di rivendicazione di una esperienza sotto attacco, di ripiegamento della sinistra non soltanto come soggettività politica ma persino come comunità umana e solidale.
Sono convinto che questo rendiconto aiuterà a capire meglio i limiti di una stagione in cui la politica progressista è evaporata lasciando il posto al cinismo dell’antipolitica e alla ferocia di una destra senza scrupoli. È uno spaccato di Sud che ci ha provato, nonostante tutto.
Per questo la storia di Giannetto Speranza non deve essere dimenticata.