Definire l’oggetto
Si discute dell’idea, lanciata dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, degli Stati generali dell’economia. Ovviamente, prima è bene definire l’oggetto, quindi capire chi può trattarlo al meglio.
Cercando di comprendere l’intenzione, fondata sull’esigenza di rafforzare la condivisione strategica dopo una grave emergenza sanitaria con conseguenze inedite sul piano economico-sociale, forse è opportuna una riflessione su alcuni punti sin qui non sufficientemente considerati.
Crisi della rappresentanza
Primo: la crisi della rappresentanza non riguarda solo la politica, negli ultimi anni ha colpito anche, in forme non minori, economia e società. Tutto si tiene.
Secondo: per conseguire il risultato è preferibile un metodo dal basso, dal territorio, dalle periferie, non solo in una rituale cessione di sovranità da parte della politica, ma nella convinzione – che la politica deve far propria – di una apertura che renda protagonisti gli attori sociali.
È opportuno partire da qui: dalla piena coscienza della crisi della rappresentanza e dall’impegno per un percorso di riconoscimento di nuovi interlocutori.
Non può essere solo un problema di procedure
Dopodiché è consigliabile stare al merito, non può essere solo un problema di procedure. C’è accordo per promuovere gli Stati generali dell’economia? Se sì, la maggioranza di governo non può presentarsi in ordine sparso, deve dotarsi di una proposta e di un profilo. Può essere un’opportunità per mostrare una più chiara soggettività politica di coalizione nell’affrontare una sfida tutt’altro che semplice.
Non basta confidare nel fattore TINA (There is no alternative). Un governo va avanti in virtù di quel che fa e delle risposte che dà.
L’establishment non ne ha bisogno
Non si tratta di offrire una tribuna all’establishment: non ne ha alcun bisogno. Non può essere l’ennesimo parlarsi addosso tra quanti già lo fanno dalla mattina alla sera, a ritmo continuo, nella dispiegata endogamia di una comunicazione che non parla dei problemi ma di se stessa, sicché la battuta fatta all’agenzia viene commentata sul talk show per essere offerta in pasto ai social network. Di questo modo di condurre il dibattito pubblico rimane solo un vacuo rumore di fondo.
Bisogna uscire da quel recinto indicando un’agenda delle questioni che il governo considera prioritarie per la ripartenza dell’Italia, da sottoporre al miglioramento che può venire da un approfondimento serio.
Le parole suggestive
Nessun déjà vu. Responsabilità nella proposta, umiltà nell’ascolto. Un punto di partenza, non (ancora) di approdo.
In un suo recente articolo Massimo Recalcati ha concluso auspicando gli Stati generali della scuola. Va bene. È un modo di dire che si usa. Anche se per lo più ha l’effetto della palla calciata in tribuna. Diffidare delle suggestioni o delle parole taumaturgiche. Ci vuole la fatica di un lavoro tenace, lo studio dei problemi, l’approntamento delle soluzioni. Senza questo impegno, succede nulla.
Piccola storia degli Stati generali
Ma c’è un aspetto, in questa storia degli Stati generali, che merita una piccola digressione. Vengono evocati da ben sette secoli, ogni volta come se fosse la prima. Nascono, infatti, in Francia, nel lontano 1302. Dopo il 1615 non vengono più convocati sino al 1789.
Rivoluzione anche a causa della rappresentanza
La rivoluzione francese, come ogni fenomeno storico, si presta a una varietà di interpretazioni possibili. Una di queste ha a che vedere proprio col tema della rappresentanza.
Nel momento del ricorso agli Stati generali da parte di Luigi XVI la popolazione francese è formata da 26 milioni di persone. L’aristocrazia ne conta 400.000 (l’1,5%). Il clero 130.000 (lo 0,5%). Insieme il 2% detiene circa il 40% della proprietà fondiaria senza dover corrispondere allo Stato particolari oneri fiscali. Il Terzo stato, a sua volta, annovera il 98% della popolazione, dai contadini ai commercianti, dai professionisti agli artigiani, dalla nuova classe imprenditoriale alla nuova classe operaia.
I cahiers de doléances
Di fronte all’esigenza di una manovra fiscale provocata da una crisi economica, al rifiuto del Parlamento di Parigi di approvare le imposte previste, al fermento popolare che ne consegue, è Jacques Necker – il ministro delle Finanze di allora – a suggerire a Luigi XVI di utilizzare, nel gennaio 1789, per il 5 maggio successivo, gli États généraux.
È in vista dell’assemblea di maggio che comincia a montare una tensione che viene raccolta nei cahiers de doléances, formula anch’essa destinata ad una fortuna postuma, in particolare in riferimento al varo di una Costituzione, a una più equa distribuzione del carico fiscale, a una riforma del sistema giudiziario. Come si vede, temi sempre nuovi.
Una testa, un voto
L’assemblea di maggio formata da 1139 membri, eletti a suffragio maschile censitario, con 578 deputati del Terzo stato, 291 del clero, 270 degli aristocratici. È lì che il conflitto sulla rappresentanza deflagra. Il re è disposto a trattare, a concedere il raddoppio a favore del Terzo stato. Ma non basta. Il tema è un altro. Passare dal voto “per ordine” al voto “per testa”.
Già nel gennaio 1789 l’abate Emmanuel Joseph Sieyès aveva pubblicato un pamphlet Che cos’è il Terzo Stato? nel quale aveva sottolineato l’inconfrontabilità del “peso” del Terzo stato, in grado di raccogliere il 98% della popolazione, con quello di clero e artistocrazia, insieme solo il 2%. È l’affermazione del principio “una testa, un voto” che scardina il vecchio retaggio corporativo suscitando un radicale cambiamento.
La Pallacorda prima della Bastiglia
Poi gli Stati generali proseguono il loro lavoro sino a fine giugno, quando dall’antica rappresentanza per ceti si passa, il 9 luglio 1789, alla proclamazione dell’Assemblea nazionale costituente, primo atto della rivoluzione francese che anticipa l’assalto alla Bastiglia, pochi giorni più tardi, il 14 luglio 1789.
Duecento anni più tardi, in Italia
Facendo un salto nel tempo di due secoli e guardando al 1989, si può osservare come la fortunata espressione di Stati generali sia diventata, nella vicenda pubblica italiana, specie dopo la caduta del Muro di Berlino, una spia linguistica caratteristica del passaggio dalla cosiddetta prima alla cosiddetta seconda Repubblica. Nei trent’anni successivi, sino alla situazione odierna, la crisi della rappresentanza, come la vecchia talpa, ha continuato a scavare.
Crisi del collateralismo
Contestualmente è andata acuendosi la crisi del collateralismo. Un fatto che ha contribuito ad approfondire ulteriormente il solco tra politica e società. Il risultato è che le strutture organizzative non sempre sono lo specchio di mondi reali. A volte sono scatole vuote, che motivano chi c’è dentro, non chi sta fuori. Tutto ciò che è “apparato” tende non già a superare ma ad evidenziare questa crisi.
No al consociativismo, sì alla concertazione
Ora è evidente il bisogno di sedi di confronto. Evitando ogni nostalgia consociativa, puntando dritti verso nuove forme di concertazione. Senza aver timore di una franca discussione tra autonomie che si rispettano. Autonomia della politica. Autonomia delle “formazioni sociali” (articolo 2 della Costituzione).
Senza rinunciare alla missione che motiva il ruolo di ciascuno, ma dotandosi, al contempo, di un ragionevole margine di disponibilità, per quanto critica, sulle scelte di fondo: dalla transizione ecologica allo sviluppo della competenza digitale, dalla sostenibilità degli investimenti in infrastrutture alla rivisitazione del ruolo pubblico nell’economia, sino alla capacità, tutt’altro che irrilevante in questa fase, di far corrispondere alla decisione una reale capacità di spesa. Più una forma ulteriore di democrazia deliberativa che una passerella.
I nuovi Stati, oltre al terzo e al quarto
Dopo il Terzo stato abbiamo visto il Quarto stato, che Pellizza da Volpedo ha consegnato alla storia delle idealità socialiste. Questo è un momento in cui, con piena coscienza di queste radici, è urgente aprirsi ad altri “Stati”: dalla condizione giovanile, tra dispersione e NEET, che avrebbe bisogno di un focus specifico, alle disparità di genere, a un mondo del lavoro – basta pensare al fenomeno in atto del lavoro agile – che chiede nuove regole e nuove tutele.
Affrontare la questione sociale
Negli ultimi vent’anni, quanti convegni sulle nuove povertà. Intanto, le nuove si sono aggiunte alle vecchie, ma si assomigliano tutte: perché la povertà è sempre quella: perdita del lavoro, emarginazione, deprivazione, solitudine. Invisibilità. Anche riserbo, pudore a mostrarsi. Detto altrimenti: la questione sociale deve essere il rovello di tutta l’azione di governo.
È evidente che occorre un invito rivolto a tutte le forze parlamentari e alla filiera degli interlocutori più autorevoli. È l’abc del galateo istituzionale. Ma l’occasione deve essere anche di sostanza. E sarebbe sprecata se non si provasse a gettare una sonda, più in profondità, dentro a quel che si muove realmente nel Paese.
Produzione, non rendita
Se gli Stati generali riescono a sprigionare energie, rappresentando la società in trasformazione, verso una ripresa che non significhi tornare a prima, ma, con ponderato coraggio, guardare decisamente in avanti, gli Stati generali – o come si preferisce chiamarli – possono diventare un fertile punto di relazione tra le politiche del governo e i problemi veri del Paese.