La notizia è fresca e mostra che il fondo deve sempre ancora arrivare. Nei campi di pomodori non si lavora più solo per pochi pochissimi soldi, non si dorme all’addiaccio o in stamberghe fatiscenti, non si soggiace soltanto alle minacce dei caporali, ma del mandante feroce che ti punta addosso il fucile e comincia a sparare. Se provi a scappare sei morto. Se non crepi di lavoro ti ammazzo.
E chissà se quel che è appena successo a Terracina nei campi dell’agro pontino è solo l’ultima scena di una deriva che ci porta secoli indietro, o se dobbiamo aspettarci che l’onda lunga di razzismo conclamato non ci sommerga definitivamente, estinguendo noi e la nostra progenie.
Certamente mette a tacere i tanti ‘saputi’ commentatori della nuova operazione di Milo Rau, controverso regista svizzero e direttore del teatro Nazionale di Gent, che ha avuto al Teatro Argentina di Roma, giovedì 10 ottobre, un momento importante. Si rappresentavano tre scene dedicate alla ripresa dal vivo de Il nuovo Vangelo, un progetto cinematografico che prende le mosse dal Vangelo secondo Matteo di Pasolini in cui il regista, già impegnato a Matera, prima di Roma, affronta il tema della passione nell’unico modo oggigiorno possibile.
La passione è là dove si patisce.
E allora quale Gesù è più credibile di un ragazzo nero che si è fatto promotore del primo sciopero dei braccianti stranieri in Puglia?
Era il 2011e Yvan Sagnet era uno dei tanti sfruttati dei campi di pomodori, senza un tetto e senza diritti. Un clandestino come tanti, che ha trovato i suoi apostoli tra i clandestini come lui.
In un teatro affollatissimo, probabilmente anche da gente che non vi aveva mai messo piede, abbiamo assistito alla consacrazione di un nuovo Cristo dalla pelle nera.
Il quale, peraltro, in un’intervista televisiva rilasciata in un italiano quasi perfetto e comunque migliore di quello di tanti italiani, dice che Cristo non è né nero né bianco ma un uomo che soffre e che si vuol liberare, insieme agli altri sofferenti e sfruttati.
Dev’essere questo il genere di dichiarazioni che si offre al giudizio, un po’ miope, in verità, di chi non rema a favore. Non proprio contro, perché ci vorrebbe coraggio, ma con la sufficienza di chi ha già capito tutto da un po’, perché queste cose si sanno, perché non c’è nulla di nuovo.
Di nuovo, invece, c’è l’istituzionalizzazione della presa di coscienza e l’esortazione pubblica alla rivolta, a rivendicare diritti, a pretendere spazi di libertà e dignità e a gridarlo in un luogo pubblico come un teatro nazionale, e prima ancora in una città che è la capitale europea della cultura. A denunciare tutte le volte che i diritti fondamentali di un essere umano vengono calpestati da un criminale o da leggi ingiuste. Siamo con voi. Non aspettate che un criminale con i documenti in regola vi punti il fucile. Denunciate perché un criminale è molto peggio di un clandestino.
Sui palchi campeggiano tanti striscioni che ci hanno ricordato il Valle occupato (l’immagine è di Andrea Porcheddu per gli Stati Generali), le scritte che ruotano intorno al manifesto riassunto nel titolo La rivolta della dignità. Una tra tutte affonda molto molto lontano e fa un po’ da filo rosso della serata.
Quando l’ingiustizia diventa legge, la resistenza diventa un dovere. Appunto. Sul palcoscenico, dopo la prima pittoresca scena della deposizione, viene allestita una sorta di tribunale popolare, che si estenderà al pubblico in sala, chiamato a votare.
A turno, da un podio centrale, sono intervenuti personaggi e rappresentanti a vario titolo di questa nuova rivolta.
Gli apostoli Matteo e Bartolomeo, Maria Maddalena, una giovane rappresentante di Spin Time Labs, la sede romana occupata dove vivono centottanta famiglie, passata alle cronache recenti per l’intervento del cardinale Konrad Krajewski, elemosiniere pontificio, interceduto per il ripristino della corrente elettrica; un sacerdote militante, nero, che ha denunciato traffici di uomini e organi, accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina; il senatore Gregorio De Falco che ha fatto una bella chiarezza sui capisaldi della legge in mare richiamando le tre convenzioni internazionali. “In mare non c’è un clandestino ma una persona e se si gli si vuole dare un nome, questo nome è naufrago e come tale deve essere soccorso. Così come, di fronte a un incidente stradale, si soccorre anche colui che lo ha provocato. E’ un obbligo che riguarda tutti i comandanti di tutte le navi di tutto il mondo”.
Il che non significa altro che se e quando la legge è giusta, ha da essere rispettata punto.
Le questioni di cui si parla – caporalato, diritti negati, sfruttamento, abitazioni e strutture recettive inutilizzate perché, per esempio, alcuni proprietari sono coinvolti in procedimenti mafiosi – non sono nuove, certo, ma non è per questo che se ne parla. Non siamo qui per dare notizie, ma per ribadire che tocca fare qualcosa. E il peso della testimonianza diretta non arriva solo dagli immigrati ma anche con un giovane agricoltore italiano che ha scelto di resistere alla perversa logica delle multinazionali. “Sono figlio di agricoltori e uno dei primi ricordi che ho è la macchina di lusso del commerciante che veniva a dire a mio padre che il prezzo del grano era calato”.
O con Marcello Fonte, il pluripremiato protagonista di Dogman di Matteo Garrone, qui nel ruolo di Ponzio Pilato. “Sono cresciuto in un giardino occupato – dice l’attore – e mio padre mi ha insegnato che con un chiodo si può fare una scenografia come questa o si può inchiodare un uomo”. Dipende da noi.
Distruggere ciò che ci distrugge, dipende da noi. Così, dopo il battesimo del nuovo Gesù, assistiamo a una cascata violenta di pomodori sulla croce. Pomodori sudati e svenduti, simbolo di fraudolento immorale arricchimento di pochi. Su di loro, una danza liberatoria, di molti.