Che siate d’accordo o meno, la pandemia ha aperto una cesura e operato un taglio netto. Oggi, per quanto i pensieri e i comportamenti di taluni possano cercare di restare gli stessi e per quanto si possa far finta di nulla, il “salto” c’è stato davvero, ha svelato contraddizioni e ha messo a nudo alcuni atteggiamenti politici che oggi appaiono anacronistici. Per dire, si può ancora considerare la sanità pubblica come uno “spreco”? I medici di famiglia come un inutile esercito? Gli ospedali come unico presidio sanitario, le convenzioni con i privati il modello da esibire, le case di riabilitazione come deposito finale di vite allo stremo? Appare evidente come tutto ciò sia ormai un libro scritto per sempre, e che sia difficile evitare questo scoglio a vantaggio del solito argomento trito e ritrito della sanità come “azienda”, dove il malato diventa un “cliente” con una personale capacità di spesa. Ecco, il virus ha “rivelato” questo aspetto della realtà che media e propaganda tambureggiante tenevano in sordina, intonando la fanfara del “privato è bello”. Sotto certi riguardi il virus è stato davvero un’apocalisse, ossia una “rivelazione” e, dunque, un punto di non ritorno, a meno che non si intraprenda una qualche strada di tipo “autoritario”.
La destra farà finta di nulla, la destra sta ancora facendo finta di nulla. Niente lockdown prima, nessun cambiamento di rotta adesso. Non perché Bolsonaro, Trump, Johnson siano ciechi, ma perché il loro mandato coincide con gli interessi del segmento più protetto della società e più potente in termini di potere e patrimonio, dal quale traggono risorse e suggerimenti ideologici. Non vi aspettate che il disegno della destra sia deviato dalle centinaia di migliaia di morti, dalla sanità piegata, dalle prospettive tetre. Pur di riversare un punto di PIL sui soliti noti sono pronti a tutto. È la sinistra che deve, invece, mutare sguardo e adottare una visione di svolta e di rinnovamento, tramutando la crisi in occasione, come si dice sempre e non si fa mai. Se la destra è dedita a occuparsi solo di spesa corrente e di consumo (e di incassi rapidi in termini di consenso), la sinistra (se vuole assolvere al proprio compito, se vuole cavare dalle vicende il giusto insegnamento) deve pensare alle prospettive, deve tenere fissi gli occhi sulle contraddizioni rese ancor più evidenti dalla pandemia e deve dire la propria. La cosa certa è che oggi non è più tempo di mezze misure, né di atteggiamenti sparagnini. Oggi la prospettiva della sinistra coincide necessariamente con il suo mutamento di rotta, più sta ferma e più rischia un’apocalisse intesa stavolta, secondo il linguaggio comune, come “disasatro”.
Oggi è tempo di scelte nette. Sono in crisi i modelli sociali, quelli di sviluppo e persino di governo politico. Pensiamo alla scuola pubblica, che in un paese democratico è sinonimo di “investimento”. Se non cambia la prospettiva, se non ci cessa di pensare in termini temporali minimi e sparagnini, se non si coglie la necessità di destinare finalmente molte risorse all’istruzione, ridisegnandone il profilo e le finalità, vorrà dire che la lezione del Covid non è stata capita. Quando cedono le forme che ci guidano abitualmente nella comprensione della società e ne garantiscono coesione e funzionamento, vuol dire che si deve lavorare alla ricerca di nuove forme, più adeguate ai tempi e alla visione che ne abbiamo. Il piccolo cabotaggio, le parole d’ordine ripetitive, i soliti giochini e le solite tattiche sono controproducenti. Invocare tagli delle tasse, senza indicare da dove trarre alternativamente le risorse pubbliche per riformare e potenziare tutta la macchina non-PIL (sanità, scuola, assistenza, cura, solidarietà pubblica) che si è dimostrata decisiva nelle crisi, appare quasi ridicolo. Se le imprese invece di fare impresa continueranno a vivere di assistenza e di reti pubbliche, la nostra economia resterà quel che è, composta da uno stuolo di “capitani di impresa” che al più sembrano primi avieri (con tutto il rispetto per i primi avieri). Se si continuerà a smantellare la PA, chiedendosi come mai non funzioni quando serve, vorrà dire che si è scemi. Se si ridurranno le città a una sorta di zona franca “usa e getta”, se i centri storici si svuoteranno ancora di residenti a favore di studi legali, banche, “baretti”, jeanserie e punti di somministrazione di panini ai dipendenti pubblici, vorrà dire che si è deciso di farle morire per sempre o ridurle a cartapesta. Se le periferie resteranno periferie, idem. E così via.
Quale deve essere la lezione per la sinistra? Questa: via tutti gli abiti che oggi ha indossato, via le tattiche e le schermaglie, via le rendite, via i sotterfugi. Si cominci a dar vita a un partito plurale, democratico, partecipato che riunifichi invece di disperdere, che dia forza invece di coltivare debolezze, che dia una prospettiva invece di offrire solo escamotage tattici. Il compito del Pd, riteniamo, dovrebbe essere quello di mettere in moto il processo invece di assuefarsi al suo 20%, e di mettere in campo le risorse di cui dispone, per un percorso unitario che si apra alla sinistra nella sua interezza. Un partito dentro il quale tutti si sentano a casa loro anche se in disaccordo con la maggioranza, dove vi sia spazio per tutti e nessuno resti indietro. Tutte le altre forze di sinistra, da parte loro, partecipino a questo tentativo, ma non per contrattare gli spazi esistenti, piuttosto per aprirne di nuovi e per ‘curvarlo’ nella direzione ritenuta più giusta. Ci sarà modo e tempo per aggiustare il processo, la politica non è matematica, è una messa a punto continua, è un’attività “per lo più”, di donne e uomini alle prese con le loro temperie storiche e la loro richiesta di democrazia e di liberazione, che sia adeguata alle risorse di cui si dispone e ai rapporti di forza attuali. Ci aspettiamo un’ondata fresca di rinnovamento, che non sia solo comunicazione o immagine, ma un flusso profondo, che non riguardi solo la schiuma di superficie ma la carne viva del Paese. In un dialogo aperto con il resto dell’Europa, per essere protagonisti e portare anche fuori dai nostri confini la nostra decisa iniziativa di rinnovamento. Non è più tempo per mezze misure, per questo “ma-anche” quello.
Se ciò accadrà, bene, vorrà dire che la speranza è ancora il motore del cambiamento. Se ciò non avverrà, ci penseranno comunque le nuove generazioni a lavorare sulla libertà, la giustizia, l’equità sociale e sulle contraddizioni e i patimenti sociali. Il fatto che i presenti non sappiano cogliere il senso dei tempi, non vuol dire che questa necessità non esista affatto e che nessun altro possa riuscire nell’intento di offrire un’opportunità di “salvezza”, per quanto fragile o provvisoria, al nostro Paese.