Questi i numeri principali del Documento di Economia e Finanza varato dal governo, documento chiave per la programmazione delle politiche economiche dei prossimi tre anni: crescita allo 0,2% per quest’anno (fortemente ridotta rispetto all’1,5% dichiarato pochi mesi fa, per i prossimi tre anni è programmato un rialzo del Pil di appena 0,8%); una indicazione di tre anni perché il debito scenda sotto il 130% del Pil (2022) e per quest’anno la previsione si attesta al 132,6%; deficit previsto al 2,4% con una graduale riduzione all’1,5% nel 2022.
Come se non bastasse, il decreto di attuazione del Fondo di indennizzo dei risparmiatori è slittato a data da definirsi, così come il decreto Crescita e lo Sblocca cantieri (ribattezzato dalla Cgil “sblocca porcate”). Inoltre, al varo del Def (ridefinibile, in questo caso come “Documento di eufemismo finanziario”) non è seguita – come dovrebbe essere normalmente – una conferenza stampa per illustrare il quadro della situazione.
Infatti, i rimasugli presenti sul tavolo il governo del presunto cambiamento se li è impegnati con la manovra 2018, che con le due misure del Reddito di Cittadinanza e Quota 100 ha ipotecato 15 miliardi di spesa in disavanzo (con un impatto limitato del 0,2% sul Pil), ma ha riversato sulle prossime generazioni una cambiale gigantesca da 54 miliardi (le clausole di salvaguardia Iva sul 2020-2021). Poiché le misure messe in cantiere, e le bordate della Lega per la flat tax, rendono sempre più complicato disinnescare le clausole di salvaguardia che comportano un aumento dell’Iva del valore di 23 miliardi. La flat tax (la tassa unica per famiglie e lavoratori dipendenti sotto i 50 mila euro di reddito, buona per i single sopra i 30 mila e molto negativa per i nuclei più poveri) all’interno del Def rimane formulata in modo stranamente generico. Il governo Lega-stellato sostiene che, in attesa di una soluzione per disinnescare le clausole Iva, non ci sarà una manovra correttiva. Invece, si accoglie la richiesta Ue di attuare la clausola contenuta nella Legge di Bilancio 2019, secondo la quale 2 miliardi di spesa delle Amministrazioni centrali resteranno congelati nella seconda metà dell’anno.
Fatta opportunamente la tara alle due misure twittarole del duo Di Maio e Salvini non è chiaro intravedere quale sarà la strategia per dare consistenza alle roboanti manovre “espansive” previste per il prossimo biennio (basate su dati contestati ampiamente da Ue, Fmi, Ocse, Bce e Bankitalia). Tra l’altro, nella cortina fumogena delle comparsate tv non si intravedono le risorse per finanziare le sbandieratissime misure previste dal decreto crescita (varate, manco a dirlo “salvo intese”).
Emerge con sempre maggiore chiarezza la stretta correlazione della flat tax con il regionalismo differenziato. La flat tax è studiata per avvantaggiare i contribuenti a reddito elevato, che sono proprio quelli residenti in larga parte nelle regioni economicamente più forti.
Vista la situazione (con un debito pubblico che naviga a vele spiegate verso 2.400 miliardi), una “manovra del popolo” avrebbe dovuto indirizzare risolutamente le risorse sulla crescita e sul rilancio della produttività, con un serio piano di investimenti, ponendo particolare attenzione al sociale e al lavoro.
Molti degli addetti ai lavori immaginano già una manovra correttiva a stretto giro dopo le elezioni Europee. E bisogna tener presente che l’aumento dell’Iva peserebbe sui consumi di una famiglia media per circa 500 euro l’anno.
L’anno bellissimo profetizzato dall’esecutivo giallo-verde si sta vestendo con abiti terribili: la disoccupazione salirà quest’anno all’11% dal 10,6% del 2018; con una serie preoccupante di tagli: oltre 1 miliardo in meno alle imprese, 300 milioni in meno per la sicurezza della mobilità locale; meno 150 milioni per la difesa e sicurezza del territorio; 100 milioni in meno per la scuola, università e ricerca; meno 40 milioni per le politiche sociali.
In un Paese dove allo stato attuale il 5% della popolazione detiene circa il 43% di tutta la ricchezza disponibile e 5 milioni di persone (ossia l’8,4% della popolazione) versano in condizioni di povertà assoluta, l’introduzione di una patrimoniale sui ricchi sarebbe la cosa più naturale, la più necessaria da fare. Oltretutto, tenendo presente che da analisi effettuate, un’imposta media dell’1% a carico dei nuclei con una ricchezza complessiva intorno a un milione di euro garantirebbe un gettito di circa 20 miliardi di euro.
L’Italia non produce più di quanto produceva quindici/venti anni fa, la disoccupazione non solamente giovanile è alta, il lavoro è malpagato, il debito pubblico spaventa i mercati. Quindi, si dovrebbero perseguire con coraggio e convinzione politiche (per cui davvero convenga sforare anche i vincoli di bilancio) per combattere l’inquinamento, le ingiustizie sociali, che difendono la salute dei cittadini, l’istruzione, la ricerca e creano nuovi e innovativi posti di lavoro. Il lavoro si crea, infatti, dalla riconversione ecologia del lavoro.
Il livello minimo per queste politiche è quello nazionale, ma quello necessario è quello europeo.