La segreteria del Pd si è riunita per la prima volta a Tor Bella Monaca. Non nella sede del circolo, ma nella nuova libreria sotto il centro commerciale Le Torri. Lo so, è sin troppo facile osservare che non è con queste apparizioni estemporanee che si salda il debito con i cittadini che vivono anche a 20-25 km da Piazza del Campidoglio. Poco cambia se ci si riunisce a via dell’Archeologia, a via Quaglia oppure a Torre Angela, che si trova lì a due passi, poco cambia se una mattina un gruppo di signori decide di fare una riunione politica, per quanto di alto livello, presso la nuova libreria. E forse ha ragione Morassut: perché no al circolo locale del Pd? Ancora per la storia della società civile? Ma quando un partito farà il partito e non la vetrina comunicativa e basta, negandosi in quanto tale? Dunque, perché proprio Tor Bella Monaca? Perché è periferia per antonomasia, è mito periferico, oppure perché là il Pd ha preso una sveglia elettorale? Perché non altrove?
C’è una cosa che ci lascia perplessi. Questo gran parlare di “periferia” ci sembra sempre più un ciarlare retorico. Sembra la solita parola chiavistello, capace di aprire tutte le porte, anche quelle elettrosaldate. Un termine che fa tendenza, e che solleva da molte colpe storiche, ridonando persino verginità a chi lo pronuncia. Peraltro è un termine generico, astratto quanto basta a renderlo universalmente utilizzabile. Quasi senza produrre attrito sociale o culturale. Un po’ come la parola ‘popolo’, che appare sempre più una categoria mediatica, un modo per indicare in termini generici, sin troppo pratici, quella che è invece una grande, convulsa, quasi irriducibile complessità sociale. Anzi, una categoria per coprire in modo truffaldino l’assenza odierna di un ‘popolo’, perso in una torma di individui che si rapportano verticalmente col mercato e quasi mai orizzontalmente tra loro. Una parola che nasconde una verità invece di manifestarla. Si dice periferia, allora, e si pensa a Tor Bella Monaca e Scampia, ai luoghi del degrado e della perdizione, come se questa fosse assolutamente circoscrivibile a determinati ambiti omogenei e non altri. Nel sollievo generale, ovviamente. Vuoi mettere a sapere che il degrado è circoscritto in un solo recinto? Ma non è così.
La periferia (urbana, sociale, culturale, umana) è molto più che degrado. È anzi la rappresentazione di un’altissima complessità ed è un ambito di contraddizioni vere, profonde che la comunicazione-politica, per ragioni sue strutturali e per essenza specifica non capisce più. A destra come a sinistra. Sinistra storica come sinistra radicale. Tutti colpiti, in fondo, dalla stessa malattia che impedisce alla politica oggi di essere autorevole. Facciamo un esempio. Il VI Municipio di Roma, e più in generale l’area vasta in cui si dilata urbanisticamente, di cui Tor Bella Monaca è simbolo inconcusso, accanto a molta edilizia ex abusiva, ospita il campus dell’Università di Tor Vergata, un grande policlinico universitario, un altro policlinico sulla via Casilina, il Centro Servizi della Banca d’Italia, è traversato da una grande infrastruttura metropolitana come la Metro C, dispone di una quantità enorme di servizi commerciali, ospita anche il centro sportivo della Borghesiana, nonché il miracolo del Teatro di Tor Bella Monaca e una bellissima biblioteca comunale a Collina della Pace, all’interno di un parco nato grazie al sequestro di beni appartenuti alla criminalità. Accanto a questo c’è anche degrado, emarginazione, solitudine, povertà, abbandono, sporcizia, individualità dei destini, certo. La combinazione contraddittoria di questi fattori è il senso vero della ‘periferia’ di Tor Bella Monaca, quartiere che nasce come un’aporia, da un ottimo impianto urbanistico combinato con un penoso abbandono sociale.
Come può ‘pensare’ adeguatamente questa realtà contraddittoria un termine come ‘periferia’, che indica soprattutto una ‘distanza’ dal centro, ma che oggi è divenuto sinonimo del male di vivere? Noi diciamo che non può pensarlo affatto. Urge un altro termine, insomma, e l’urbanistica, la politica, l’antropologia dovrebbero spremersi le meningi invece di fare semplice amministrazione della cultura e ripetere lo stesso sciocchezzaio da decenni. Marc Augè ha provato a parlare di non-luoghi. Alfredo Morganti (uno degli autori di questo articolo) ha scritto più modestamente un volume di poesie su ‘Non Roma’. Ma oltre il ‘non’ non si è andati, oltre questa negazione c’è come un muro che impedisce di capire meglio. Forse anche per questo si fanno riunioni politiche a Tor Bella Monaca immaginando il degrado, invece di provare a intuire la ricchezza che coabita e confligge con quello stesso degrado. Il controesempio è facilissimo: quanto scadimento, quanta incuria, quanto abbandono affligge il ‘centro’ della città, quanta periferia si esprime contraddittoriamente nella città storica, ‘pregiata’, millenaria? Tanto! I non-luoghi, la Non Roma sono ovunque insomma, sicuramente laddove la politica cessa di fare il proprio mestiere, non progetta soluzioni, non lavora al bene comune, non riesce a respingere l’atomismo, il prevalere del privato, lo strapotere dei ceti parassitari e della rendita.
Questa invocazione costante della periferia, questo invito ad andare ‘verso la periferia’ non produrrà nulla di buono se le basi culturali sono queste, se la piatta comunicazione prevale sulla spietata e indispensabile analisi delle contraddizioni. Non basta insomma dire che si intende andare “alla conquista del popolo delle periferie”: due parole così generiche nella stessa frase annunciano il quasi certo fallimento. Il vero danno della politica è nel ritenere che una spruzzata di comunicazione, una ‘trovata’, un colpo di genio possano aiutare a recuperare strada. Non è così. Non sarà mai così. Un evento mediatico resta tale e basta. Non migliora la vita dei cittadini, non lascia intravedere un futuro migliore. Ciò non toglie che si debba essere bravi anche nella comunicazione-politica: ma donarsi totalmente a essa è da sciocchi. Sarebbe stato persino meglio se si fossero riuniti al Nazareno, in centro, e indicato lì di ribaltare il guanto, prospettando una linea capace di contrastare certi fenomeni, tentando di risolvere in positivo le contraddizioni periferiche, nel senso dello sviluppo e non più del degrado. Il contesto in cui si decide non per questo ne agevola lo sviluppo. Al massimo si fa un tour suburbano, un tour del dolore, come hanno fatto tanti, come si predica ancora di fare.
Senza contare che la periferia non è nemmeno il luogo ideale per fare politica. Se è vero che vi domina l’emarginazione, la distanza, l’abbandono – e se vi prevale un punto di vista troppo laterale, parziale e quasi cieco rispetto al planisfero generale, come è possibile avere un quadro ampio, largo dei fenomeni, indispensabile a cogliere la direzione più efficace ed equilibrata da intraprendere? Non è una contraddizione, è un fatto. Ve lo dice chi la periferia la conosce per vissuto specifico. Andare verso la periferia è come perdere equilibrio, come spostare l’asse verso un luogo cieco, come uscire da un punto di osservazione generale per ritrovarsi in un angolo. Muoversi nel degrado e nell’abbandono non è mai una condizione ideale, auspicabile, per chi voglia indicare una direzione di rotta efficace. La visione è parziale, contraddittoria. Ciò non vuol dire che non serva una politica per le periferie (o come altro chiamarle), non serva una riequilibrio urbanistico, culturale, sociale, anche umano, non serva un ‘ribaltamento’ del guanto, un salto mortale, non serva una presenza politica (di un circolo, di un comitato, di un’associazione) accanto a una presenza anche mediatica, capace di proporre una ‘narrazione’ alternativa. Altro che. Il punto è che la periferia è una terreno scivoloso, l’effetto di una squilibrio, il senso di una perdita. Nulla di tutto questo da solo produce politica democratica, anzi. Non a caso la destra razzista pesca in periferia, perché gioca sugli squilibri e sulle contraddizioni tipiche dei luoghi dell’abbandono e degli impulsi sociali.
Che fare, allora? Quel che si fa in democrazia. Non si va ‘verso’, come populisti qualsiasi, ma si lavora alla partecipazione organizzata a partire dai partiti. Servono casematte politiche e culturali, avamposti, agenzie di consapevolezza, reticoli sociali, reti di protezione, luoghi e punti che producano cultura. Citiamo sempre il Teatro di Tor Bella Monaca. Ce ne fossero. E poi centri di assistenza e cura. Protezione. Un lavoro di amalgama, di coesione che solo risorse ben proporzionate possono garantire. Ecco, invece di andare retoricamente, anzi neorealisticamente ‘verso la periferia’, i partiti democratici spostino lì risorse pubbliche, indirizzino verso i margini urbani non la retorica dei brutti documenti politici, ma soldi, forze, tempo, cultura, socialità, opportunità, progetti, speranza concreta. Molto meglio del populismo di destra e di sinistra, molto meglio delle riunioni estemporanee. Fatelo dal centro, non è un problema. I borgatari, i periferici sono pronti a partecipare se si offrono loro opportunità e risorse. Non serve il Papa a Tor Bella Monaca per essere cristiani. Il Teatro ha staccato decine di migliaia di biglietti in tre anni, mica chiacchiere. E poi le borgate sono già adesso ricchezza (lo abbiamo visto: università, ospedali, servizi di calcolo, servizi commerciali, infrastrutture della mobilità), facciamo in modo che ciò faccia crescere attorno altra ricchezza sociale e culturale, che questa trabocchi e sani pian piano le contraddizioni. E poi molto dipende dal governo centrale. Dalla sua capacità di ‘regolare’ le disuguaglianze, di attenuare gli squilibri, di raddrizzare i piani inclinati che spingono qui da noi gli immigrati e tengono lontano dal centro i periferici. Un lavoro caparbio e meticoloso per il quale i populisti, destra o sinistra che siano, non sono adatti. La politica democratica è la sola arma che abbiamo.