No, non è stato per niente facile. Sì lo so, era previsto, prevedibile, inevitabile, impossibile sfuggirgli, da tempo era dato per scontato. Un possibile sbocco fin dall’inizio. Posso dire che ho trovato piuttosto indigesto l’amaro calice del cosiddetto “rientro” nel Pd?
Chiariamo però il passaggio. Potrà sembrare questione di lana caprina, un gioco di parole per non perdere la faccia, una sottigliezza semantica a celare l’atto in sé, un modo per indorare una pillola amara da inghiottire; non è così. In primo luogo una precisazione: il passo è successivo alla scelta operata la scorsa estate di far parte della lista “Pd – Italia Democratica e Progressista”, cosa diversa dal semplice “rientrare nel Pd”. Scelta in linea con l’indicazione venuta dal Congresso di aprile conclusosi con il mandato democratico dei nostri iscritti per proseguire e completare nei prossimi mesi il confronto con il Pd e altre realtà politiche e associative dell’area progressista interessate all’obiettivo di costruire una proposta e una soggettività comune in vista delle prossime elezioni, che funga da architrave del nuovo centrosinistra.
Le cose poi non sono andate esattamente come si sperava: il governo che cade, il campo progressista che rimane al palo, la coalizione che si sfalda ancor prima di formarsi, le elezioni anticipate e finite come sappiamo. Nel marasma della scontata sconfitta affiora una proposta seria, forse l’unica possibile anche se ricorda un po’ il “l’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare” di Gino Bartali: una costituente che tracci e definisca le linee, i valori, i progetti, la visione di un nuovo Pd. Ecco, un NUOVO PD, non un Pd ripassato come il lesso alla picchiapò che si mangia al Testaccio.
Così, nel bel mezzo di una tempesta di “chiudiamo, è tutto finito, il Pd è morto e sepolto”, prende il via un processo costituente dagli esiti per nulla scontati. Articolo Uno in prima fila, credendoci ancor più di tanti che nel Pd ci stanno da sempre. Ci si confronta sulle idee, si analizza una realtà che dalla stesura del Manifesto del Lingotto (era il 2007) è profondamente cambiata. Non mancano le critiche. Qualcuno addirittura lamenta che anziché essere Articolo Uno a rientrare nel Pd, pare sia il Pd a farsi inglobare da Articolo Uno. Le cose anche qui non vanno benissimo: l’imminenza del Congresso per eleggere il nuovo segretario relega ad un ruolo comprimario il processo costituente, sono i nomi dei candidati alla segreteria che suscitano interesse ed occupano tutti gli spazi. Anche gli ormai non numerosissimi militanti si sentono più impegnati nella campagna per le primarie che non nelle discussioni interne a quel comitato di ottanta e più componenti che andrà a definire chissà cosa. E poi ci sono da leggere le tante pagine delle mozioni dei quattro candidati, ammesso che qualcuno lo faccia. Mica abbiamo il tempo di leggere altro!
E così, quando, sabato 21 gennaio, il Manifesto per il Nuovo Pd Italia 2030 viene approvato a larghissima maggioranza dall’assemblea, gli schieramenti sono già delineati e gli appoggi a questo o quel candidato assumono, specie localmente, i contorni di un braccio di ferro, di una lotta interna tra opposte fazioni, talvolta addirittura una sorta di ribellione. Normale dialettica politica o inevitabile (?) fratricidio? Le primarie continuano a non convincermi. Ah già ma tu sei quello che… vabbè lasciamo perdere.
Talvolta affiora, e questo mi rincresce e preoccupa, una lettura in chiave localistico-amministrativa del dibattito, peraltro in genere non particolarmente avvincente e approfondito, la tendenza ad interpretare lo schierarsi a favore di un candidato come un giudizio, un atto di sfiducia verso chi sta in quel momento amministrando. Sminuendo così il significato, ma anche il valore, di un dibattito che ha come riferimento le linee di fondo, i principi, i valori, la piattaforma sulla quale provare a ritrovarsi, dando una forma il più possibile organica e chiara ad una forza politica che da troppo tempo ha smarrito, o ha volutamente nascosto, il suo profilo, la sua identità.
Nulla a che vedere con la risposta immediata alle questioni amministrative di una città, di un comune, di una qualsiasi piccola comunità o singolo cittadino. Non certo questioni di poco conto, sicuramente un terreno su cui incentrare cura e attenzioni. Ma il congresso di un partito soprattutto di altro si deve occupare: appunto delle ragioni di fondo, del progetto, della visione, delle prospettive di un intero Paese e anche di più, insomma della politica. Dalla quale far discendere la buona amministrazione, non viceversa. Certo, una buona amministrazione è fondamentale, trovare le risposte ai bisogni (sottolineo bisogni, non interessi) della comunità che si amministra è indispensabile, nonché fonte di possibile consenso; anche se dovremmo ormai avere imparato quanto sia effimero. Compito di un partito è preparare amministratori capaci di dare risposte, trovare soluzioni, mediazioni favorevoli; il tutto in un quadro generale chiaro di valori, proposte e visioni che possano aggregare, unire, coinvolgere. Disturba se parlo di ideologia? Dà fastidio se parlo di cultura politica? Senza troppo allontanarsi dall’ambito Pd, non preoccupa la situazione di sbando in cui si trova? Non interessa sapere cos’è o per lo meno cosa voglia essere, dove si voglia collocare?
Domande retoriche? Non credo, visto le fondamentali questioni che vanno delineate e definite, a partire dalle parole d’ordine sicuramente condivise ma che vanno declinate con attenzione e sostenute con fermezza. Parliamo di diritti universali e di lotta alle disuguaglianze: siamo per una sanità pubblica e universale o no? riteniamo possibile il regionalismo differenziato o no? siamo per una istruzione pubblica, accessibile e garantita o accettiamo la dicitura “istruzione e merito”? Democrazia parlamentare o “il Sindaco d’Italia”? tassazione progressiva o flat tax? Imposte sul lavoro o sui patrimoni? Europa o Nazione? Intervento dello Stato sull’economia o liberismo più o meno rimasticato? Stato o mercato? Vocazione maggioritaria cercando di far prevalere le proprie idee o adeguandosi a quelle degli altri? Sinistra di governo o governo ad ogni costo?
Sono solo alcune delle questioni aperte, domande cui Il Pd in questi anni non ha saputo sempre dare risposte chiare e univoche. Ha navigato cambiando spesso rotta, sovente adeguandosi al capo di turno, divorando come un Moloch un segretario dopo l’altro. L’impegno dovrebbe essere chiarire questi punti, dare finalmente un profilo chiaro a un partito che si definisce democratico ma di cui si fatica a capire da che parte voglia stare. Un problema non da poco, che non potrà essere risolto dal miglior segretario del mondo. Anche se di non poco conto sarà la scelta di chi guiderà il Nuovo Pd. Non avrà una bacchetta magica risolutiva di tutti i mali ma avrà un ruolo decisivo per imprimere la necessaria e indispensabile discontinuità a una storia ormai troppo lunga e che troppo ha logorato quel partito che dovrebbe tornare a occupare il ruolo guida di una sinistra confusa, sconcertata, dilaniata. Perdente.
Rimane il timore che la “gazebata” possa non essere la soluzione definitiva, la risposta ai troppi interrogativi. Preferisco pensare che il processo costituente, messo in sordina dall’imminente chiamata ai gazebo, non venga considerato chiuso e archiviato. Ci conto e credo che le insistenze di Articolo Uno perché proceda possano effettivamente avere successo. Soprattutto ci spero, me lo auguro. Si dovrà insistere, crederci.
È in questo quadro che decido di sottoscrivere l’impegno ad aderire al Nuovo Pd. Non lo faccio individualmente ma a seguito di una decisione assunta da Articolo Uno e condivisa da novemila dei tredicimila iscritti. Una storia finita dunque? No, non credo sia ancora arrivato il momento di archiviare Articolo Uno. L’adesione al Nuovo Pd rende inevitabile una nuova forma, un diverso modo di stare insieme. Non credo serio e possibile rimanere iscritti contemporaneamente a due partiti, anche se in questo campo la fantasia non manca (qualcuno ricorda forse Marco Pannella). Si tratterà di trovare una formula che ci permetta di non disperderci, non tanto per i legami personali che in questi anni si sono consolidati, quanto per il patrimonio di idee, progetti, riflessioni, proposte, che abbiamo saputo elaborare. Un patrimonio politico che sarebbe riduttivo rinchiudere in una corrente (ovviamente minoritaria). Qualcuno griderà al fallimento, qualcuno obietterà che una fondazione, un’associazione culturale o chissà cosa ci inventeremo non è certo la cosa di cui abbiamo bisogno. Non è un problema di formule ma di sostanza: c’è ancora parecchio da fare. Il confronto con il Pd e altre realtà politiche e associative dell’area progressista non è affatto concluso. L’obiettivo di costruire una proposta e una soggettività comune non è stato ancora raggiunto. L’architrave del nuovo centrosinistra ancora non si vede.
Quando, dopo essermene andato dal Pd, decisi di aderire ad Articolo Uno scrissi: sarà una traversata del deserto. Ci vediamo dall’altra parte. Siamo arrivati dall’altra parte? Sarà finito il deserto?