Qualche giorno fa ho incontrato il segretario regionale del PD Marche per annunciargli le mie dimissioni da capogruppo del PD in consiglio regionale e la mia uscita dal partito per aderire a Articolo 1.
Questa decisione è stata l’esito di una analisi meditata sul percorso che il Partito Democratico ha compiuto negli ultimi tempi e sul parallelo e contrario percorso di Articolo 1, che mi ha portato, via via sempre più convintamente, a maturare questa scelta.
Non vedo più nel PD quei valori, quella identità e quelle scelte concrete di fondo che lo hanno fatto nascere come progetto politico di centrosinistra nel 2007. Quel PD non esiste più.
Si è smarrito il senso di quel progetto e ciò è testimoniato anche dal distacco crescente della popolazione e di una quota consistente del proprio elettorato tradizionale.
Al contrario, oggi Articolo 1 è l’unico soggetto che può portare avanti in modo chiaro un progetto di centrosinistra, scelte nette e concrete sui temi del lavoro, del contrasto alla disuguaglianza e di politiche di sviluppo basate su una crescita sostenibile ed equa. Parole chiare ascoltate in piazza il 1 luglio, che rappresentano, in modo nuovo, i valori della sinistra riformista italiana, altrove dispersi.
In piazza Santi Apostoli abbiamo ascoltato la volontà chiara di costruire una proposta programmatica capace di unire il centrosinistra; questa volontà non è chiara nel PD, perché non è chiaro e definito il suo campo di governo.
Oggi il Partito Democratico è piuttosto orientato a un governismo, a prescindere dalla coalizione di riferimento e conseguentemente dal merito delle questioni, dal tipo di soluzioni per risolvere i problemi della popolazione. Lo abbiamo visto nella discussione relativa alla legge elettorale: qualsiasi accordo sembrava possibile e indifferente, da Berlusconi a Pisapia, pur di andare al potere.
A causa di questo “governismo a prescindere”, il PD ha perso di fatto la sua identità politica di sinistra.
La recente posizione emersa sui migranti (“aiutarli a casa loro”) è esattamente la stessa della Lega di Salvini. Per quanto riguarda le scelte di natura fiscale, poche settimane fa Renzi ha confermato che l’abolizione della tassazione sulla prima casa per i più ricchi non è stata semplicemente una scelta del governo di larghe intese, ma una politica qualificante del programma del Partito Democratico, che verrà confermata in futuro. Una scelta anti-perequativa e dunque di chiaro svantaggio per i ceti più deboli, costata 5 miliardi di euro di minor gettito, che potevano essere destinati al sostegno ai redditi più bassi e di chi ha perso lavoro durante la crisi. Una politica assente negli altri paesi europei e che graverà come una scure sugli enti locali (e sul principio della loro autonomia finanziaria), dunque sui servizi ai cittadini.
In generale la visione di fondo delle politiche economiche e del lavoro ultimamente sostenute dalla maggioranza del PD sono basate su ricette che si basano unicamente sull’abbassamento del costo del lavoro e su defiscalizzazioni, piuttosto che sul rilancio di una politica di investimenti, come sostegno alla crescita. Una visione e una proposta già sperimentata negli ultimi anni dalle destre in Europa e già fallita. Non solo quindi una impostazione lontana dai valori e dalle scelte della sinistra e del partito socialista europeo, ma un tipo di soluzioni inadeguate a risolvere in modo strutturale i problemi e spesso basate su proposte di bonus e interventi spot, centrati su incentivi fiscali ‘una tantum’, che denotano la mancanza di un progetto strutturale, capace di affrontare il cuore delle questioni.
Da ultimo, ma non meno importante: ogni giorno che passa il PD dimostra di non credere nel valore della discussione e di non avere fiducia nell’intesa comune come obiettivo del confronto. Lo abbiamo visto per l’ennesima volta nell’ultima direzione nazionale dove, come sempre avviene da diversi mesi, qualsiasi posizione di contributo critico viene derubricata con la battuta arrogante e con lo sberleffo, piuttosto che essere intesa come necessità di riflessione seria sui problemi politici emergenti.
Siamo di fronte a una cultura politica fondata sul settarismo di maggioranza, che può sembrare un ossimoro, ma che è invece diventato un metodo: pochi assumono una decisione, il confronto nel merito non è ammesso e qualsiasi dubbio insinuato viene aggredito, e tacciato di essere strumentale e unicamente di contrasto alla figura del leader, divisivo e dunque dannoso e tipico della vecchia politica inconcludente, in una parola contrario agli interessi e alle sorti progressive del paese.
Il problema è che questa impostazione, la cultura politica del “ciaone”, non è più solo un metodo di poche ristrette classi dirigenti, ma sta diventando una impostazione politica pervasiva: sempre più spesso, nelle rare riunioni dei circoli, capita di ascoltare parole sprezzanti e violente per chiunque osi porre qualche dubbio rispetto alla linea del capo. Anche se si tratta di personalità autorevoli che hanno svolto ruoli di primo piano nel Pd e nel centrosinistra italiano e che hanno anche sostenuto l’attuale segretario, quando si è messo in discussione un possibile accordo con Forza Italia o si è ammessa la recente sconfitta elettorale, si è improvvisamente diventati gufi e pericolosi nemici del popolo. L’epica della narrazione vincente appare oggi come il principale fondamento politico da salvaguardare, anche quando è indifendibile perché si discosta in modo evidente dalla realtà, sia essa testimoniata da eloquenti dati elettorali o dai numeri dell’Istat che parlano di una povertà record, o da una disoccupazione giovanile al 40%. Eppure, chi di fronte a queste evidenze prova a chiedere una qualsiasi correzione di rotta va tacitato, perché alimenta una cultura disfattista; non si capisce che invece, di fronte a una popolazione i cui problemi non sono stati risolti, la cosa migliore sarebbe ammettere che alcune politiche vanno cambiate e gli elettori ascoltati.
Ma questo potrebbe voler dire discontinuità di scelte e di classe dirigente, come del resto avviene normalmente dopo le sconfitte, per arrivare a una sintesi più ampia e avanzata. La risposta di questi mesi è stata, al contrario, la chiusura di una classe dirigente e l’esclusione di chi la pensava diversamente e delle sue proposte, a tal punto che di fatto non esiste più alcuno spazio politico per svolgere fattivamente un ruolo di minoranza nel PD.
Ma come si può pensare che chi non ha fiducia nella possibilità di costruire una sintesi più ampia nel proprio partito possa riunire intorno a sé un campo largo del centrosinistra? Vedo al contrario che nel proprio percorso, Articolo 1 sta cercando di aprire una discussione nel merito delle proposte per il paese come strumento per raggiungere una intesa larga di centrosinistra, in discontinuità con le scelte che in questi anni si sono rivelate inadeguate a risolvere i problemi dei cittadini, al di là di qualsiasi calcolo politicista e di narrazione lontana dal reale.
Mi pare la strada giusta e vincente.