Serve formare comunicatori costituzionali. Una (non) modesta proposta

| Cultura

Questa è non una modesta proposta. È ambiziosa, richiede generosità. Riguarda qualcosa di cui tutti parlano – la comunicazione – e qualcosa che ci sta a cuore – la democrazia. Prima di formularla, però, esponiamo le sue ragioni. Cominciando da un’osservazione.

L’attività dei comunicatori italiani non si svolge nell’adesione ai principi costituzionali. E già scrivendolo sembra di mettere insieme pere e mele. Che cosa c’entrano con la Carta i pubblicitari e i grafici, i social media manager e gli addetti stampa, i responsabili marketing e via dicendo? Niente, a oggi. Intendiamoci: non è che siano avversi alla Costituzione. Semplicemente, non rientra tra i valori fondanti della loro professione. In effetti l’obiettivo del comunicatore sembra delimitato, non certo universale, e, a parte le illegalità come diffamare e ingannare, egli può perseguire i suoi fini nel modo che ritiene più efficace. Così sembra. Perché questo è il mondo da cui veniamo. Non il presente.

Guardiamo invece a quel che ci ha consegnato la pandemia. È stata un’esperienza estrema, che ha reso estremo tutto. Anche in comunicazione. Chi per esempio era solito parlare quando serve, ha visto crescere il valore delle sue parole. Chi invece viveva di propaganda ci è letteralmente annegato dentro. Soprattutto, il virus ha estremizzato le carenze del nostro linguaggio pubblico. Prendiamo come simbolo la vicenda del video “Milano non si ferma”, esemplare dell’idea di comunicazione nostrana. Di quel filmato è interessante in primo luogo il tragitto: voluto dai ristoratori di Milano, proposto sul web e poi adottato dal Comune, è stato rilanciato dai principali organi di informazione nazionale. Privati, istituzioni, media: colpisce l’ampiezza del fenomeno. Non soffermiamoci qui sulle conseguenze. “Milano non si ferma” è il risultato di una cultura davanti al quale, più che il comprensibile rammarico postumo dei singoli protagonisti, diventa importante capire cosa l’abbia reso possibile e cosa si può fare per compiere dei passi avanti.

In quei giorni mi è capitato di rilevare pubblicamente l’errore di fondo dell’iniziativa: l’idea che comunicare possa servire a non far vedere i fatti, a convincere la gente a far finta di niente. A dire uscite di casa, affollate i locali, continuate come niente fosse. Non si può non vedere che alla base di questo messaggio c’è un’idea di comunicazione come spin, buona per coprire la realtà e manovrare le folle. Giova ricordare che il video fu pubblicato il 27 febbraio, già quattro giorni dopo la zona rossa di Codogno. E un’inadeguatezza simile riguarda, in modi diversi ma con effetto comune, la grande maggioranza dei messaggi dai quali siamo stati raggiunti durante la pandemia, quasi sempre vacui se non dannosi. Perché al nostro linguaggio pubblico, alla comunicazione di imprese e istituzioni, non mancano i media. Manca semmai una consapevolezza sociale. Un sapere adeguato, tale da rendere impossibile le mistificazioni “che non si fermano”.

Ora, ragionare politicamente su questi temi vuol dire liberarsi da molte subalternità. Culturali, ma anche tecniche. Ci si è convinti per esempio che l’evoluzione della comunicazione è nella tecnologia. No: l’evoluzione della comunicazione è nei suoi scopi. Tendiamo a dimenticare che la comunicazione di massa è un fenomeno molto recente nella storia umana. È noto quel paradosso secondo il quale, se la storia dell’uomo sulla terra fosse un libro, l’invenzione della scrittura arriverebbe nell’ultima pagina e il mondo attuale, il villaggio globale dell’elettronica, solo nell’ultima riga. Viviamo quindi dentro una colossale trasformazione epocale e siamo chiamati a fare la nostra parte perché l’utilizzo di questo intreccio di strumenti possa iniziare a servire l’uomo e non a schiacciarlo, perché comunicare diventi un modo per estendere la democrazia, non per negarla. In pandemia abbiamo pagato caro anni di malintesi e di malafede su questi temi.

Il lavoro da fare è molto profondo. E servono figure nuove. Occorre mettere mano alla formazione di un “comunicatore costituzionale”, che versi il suo sapere dentro obiettivi di estensione democratica. Bisogna che la vera politica faccia pace con il concetto di comunicazione e costruisca un’offerta formativa rivolta a giovani, neo laureati e militanti interessati ai media moderni e alle sue potenzialità umane. L’obiettivo è la nascita di comunicatori nuovi, etici e preparati al tempo stesso, che poi, dalle imprese, dalle associazioni e dalle istituzioni, sappiano costruire forme inedite di partecipazione, creare relazioni popolari, insomma estendere civismo anche nel perseguimento di fini privati – che non per forza sono egoistici.

Sono convinto che in questa impresa il mondo della comunicazione debba allearsi con le culture politiche costituzionali e con il loro modo di concepire la trasformazione e l’agire politico. Un’alleanza da intendersi in modo letterale. Perché in questo progetto nessuno parte più avanti degli altri e a ognuno manca un pezzo. Al politico può anche mancare cultura di comunicazione contemporanea, ma il suo agire si iscrive in valori costituzionali che sono distanti dal comunicatore. Serve una progettazione radicale e collettiva, una visione lunga, non la consulenza dell’esperto.

Abbiamo dei riferimenti culturali? Non certo nella storia di propaganda così costante nella vita nazionale. Credo che le radici vadano piantate dentro la grande riforma – valoriale, linguistica – proposta negli anni sessanta dal comunicatore umanista Bernbach. Un pensiero più che contemporaneo quando, amaramente ma non senza ottimismo, diceva “I fatti non bastano”. Ovvero, non è sufficiente avere buone ragioni. Così come non perde senso l’appello che rivolse ai colleghi di tutto il mondo, affinché si alleassero con le buone cause, perché “gli uomini di buona volontà non sono per forza dei bravi comunicatori” e davanti all’attuale metabolismo mediatico era decisiva la capacità di proporre le proprie verità. Un invito allora pionieristico ma oggi manifestatosi in tutto il mondo, un paesaggio in trasformazione che vive nelle mobilitazioni antirazziste o ambientaliste, negli slogan e nelle nuove forme di coinvolgimento. Il linguaggio è uscito dal supermercato, è diventato strumento di cambiamento.

Soprattutto, però, l’Italia ha la sua Costituzione. Che è anche un riferimento linguistico, un esempio perfetto di cosa vuol dire comunicare democrazia. Come a suo tempo ricordò De Mauro, la carta fu sottoposta a un esplicito lavoro di editing prima della promulgazione, proprio perché dopo la dittatura si ricominciasse da una legge comprensibile da tutti. Credo che il patriottismo costituzionale italiano, così tenace, si debba certamente alla forza dei suoi principi, ma anche alla pulizia del loro linguaggio, alla grazia di parole semplici e precise. Infine, c’è l’articolo 3, che indica la strada, quando recita:

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Eccolo il compito di fondo del comunicatore italiano. Usare il suo mestiere per costruire forme di comprensione del mondo e delle ragioni della democrazia, modi civili per coinvolgere e avvicinare il cittadino. È proprio nella Costituzione che troviamo, nella sintesi più alta, il doppio lavoro da compiere: da un lato la ricerca sul linguaggio, come esprimere i contenuti democratici, e dall’altro lato il contenuto, ovvero i principi fondamentali.

La necessità di un comunicatore costituzionale è un lascito della pandemia. Di un’esperienza che ha reso evidente la nostra interdipendenza, l’impossibilità di ragionare per egoismi e comparti. È ciò che non abbiamo visto. Una figura da progettare, immaginando finalmente una consapevole dimensione collettiva della comunicazione. Che, ricordiamolo, vuol dire mettere in comune. Il gesto inevitabile del nostro tempo.

Giuseppe Mazza

Copywriter, dopo dieci anni in Saatchi&Saatchi e Lowe Pirella ha fondato Tita, la sua agenzia. Dirige Bill Magazine, la rivista italiana di studi sul linguaggio pubblicitario. Ha pubblicato "Bernbach pubblicitario umanista" e "Cose Vere Scritte Bene" (Franco Angeli). Ha scritto per Cuore, Comix, Smemoranda, Il Venerdì.