“Sentinella, quanto resta della notte?”. In queste settimane di sospensione della nostra quotidianità a causa delle misure del contenimento del Coronavirus, in cui sono divenuti quasi palpabili concetti altrimenti solo filosofici come lo “stato di eccezione”, credo che molti si pongano la domanda di Isaia nell’oracolo sull’Idumea.
Quanto resta della notte? Quanto perché l’eccezione abbia termine, e si possano riguadagnare i gesti della quotidianità, riabitare gli spazi aperti, salutare chi se n’è andato in solitudine?
Il testo biblico, come tutte le grandi narrazioni dell’umanità, non dà risposte consolatorie, ma convoca l’uomo ad una responsabilità attiva: “Viene il mattino – risponde la sentinella -, poi anche la notte; se volete domandare, domandate, convertitevi, venite”. Non si dice quando la notte avrà fine, ma si riattiva la possibilità dell’uomo di riempire quel tempo d’attesa, di non essere inerte, quasi che quell’interrogarsi incessante, quell’andare, potesse esso stesso riaccelerare il tempo.
Forse è proprio così che dobbiamo stare in questa notte, provando a colmarla con un esercizio vigile del pensiero e dell’immaginazione, perché è chiaro ormai a tutti che il mondo di ieri non tornerà (prova ne sia il rapido abbandono dell’impianto fondamentalmente ordo-liberale con cui era stata impostata l’integrazione europea dalla fine degli anni ’80 ad oggi), e che, quando usciremo da questa emergenza sarà necessario ripensare in profondità il ruolo dello Stato, il tessuto economico sociale, il sistema istituzionale, le relazioni internazionali.
Può essere, e tutti lo auspichiamo, che il tempo che abbiamo di fronte sia quello della tenerezza preconizzato da David Grossman qualche giorno fa in un bellissimo scritto; ma potrebbe essere anche un tempo più ruvido, meno solare, e proprio per questo è indispensabile ora che la politica recuperi anche una dimensione profetica, ossia la capacità di disegnare molteplici possibilità di futuro, e non di farsele disegnare da altri per essere, come è stato in questi anni, volta a volta l’esecutrice ovvero l’ospedale da campo del neoliberismo.
Tra le molte tracce di riflessione su cui occorrerà impegnarsi ne segnalo solo alcune, in ordine sparso e per scale diverse.
La prima riguarda quale modello sociale ed economico dobbiamo già cominciare a ricostruire. I paesi europei uscirono dalla Seconda guerra mondiale costruendo il compromesso tra l’economia liberale di mercato, da un lato, e le grandi infrastrutture del welfare dall’altro (sanità, protezione sociale, previdenza), che resse durante i “trenta gloriosi” e cedette il passo tra la fine degli anni ’70 e gli inizi degli anni ’80 alla lunga stagione neoliberista, durante la quale, se una responsabilità ha avuto la sinistra, è quella di essersi troppo spessa concepita come l’ospedale da campo della globalizzazione economica.
E quindi occorre chiedersi quali idee forti la sinistra intenda mettere in campo per sostituire alla globalizzazione come l’abbiamo conosciuta una nuova mondialità (per usare le parole del poeta Edouard Glissant) in grado di reimpostare un modello di crescita economica in grado di garantire coesione sociale, ridistribuzione, inclusione. E chiarire anche quale sarà il livello del confronto e della dialettica che la sinistra è disponibile a sostenere (all’interno delle mediazioni istituzionali e dei corpi intermedi), con chi penserà che sia semplicemente pensabile una restaurazione del vecchio ordine ovvero con l’internazionale nazional-populista che, senza dubbio inadeguata in questa fase di emergenza, non necessariamente uscirà declinante dallo stato di eccezione.
Per quanto riguarda l’Italia, credo che questo modello economico dovrà essere impostato sull’investimento su tre fondamentali beni comuni: la salute, l’ambiente e la ricerca. Solo oggi la grande maggioranza dell’opinione pubblica si sta rendendo conto di quanto sia prezioso un servizio sanitario nazionale universalistico e di come esso ha corso il rischio di essere compromesso. L’investimento nel servizio sanitario nazionale da solo non è sufficiente, perché il covid 19 ha dimostrato che reggono meglio le aree in cui la rete territoriale è stata preservata (per scelta consapevole come in Emilia Romagna o per resilienza come in Veneto), in cui non sono state fatte scelte spinte in direzione di modelli ospedalocentrici e di progressivo spostamento verso il privato e la logica della prestazione. Va fatto uno sforzo per potenziare il territorio e la rete di prevenzione, oltreché l’integrazione socio-sanitaria.
Un’altra traccia di riflessione sarà quella di comprendere come l’emergenza del Covid 19 impatterà sulle tre grandi transizioni che già stavamo vivendo: quella tecnologica, quella ambientale, e quella demografica. E’ largamente probabile che la transizione tecnologica subirà un’accelerazione: è appena il caso di ricordare come un istituto come il lavoro agile, finora introdotto con parsimonia e cautela nelle amministrazioni, è diventato in questi giorni la modalità di lavoro ordinaria per una platea molto vasta di persone. Questa accelerazione porta con sé la necessità di un governo e di una regolazione della medesima, perché è forte il rischio di una divaricazione ancora più accentuata del mondo del lavoro, oltreché della disintermediazione di quote sempre più rilevanti di segmenti lavorativi.
Una ulteriore traccia riguarda il sistema istituzionale del nostro paese: è fuori di dubbio che in questo momento straordinario in cui abbiamo consentito ad una limitazione di alcune prerogative personali ha prevalso la facoltà autoritativa di tutela dello stato-auctoritas, e diversamente non avrebbe potuto essere. Sono emerse anche alcune smagliature – se non a volte degli sbreghi veri e propri – sugli equilibri dei rapporti con le Regioni: da parte di queste ultime è prevalsa in alcuni casi la tentazione “autarchica” di fare da sé, salvo poi fare clamorosamente marcia indietro. Si apre necessariamente una riflessione sul bilanciamento di poteri e competenze, perché è ormai evidente che una situazione del genere si affronta solo con una “catena di comando” corta e coordinata, fortemente integrata con le realtà territoriali ma altresì in grado di agire con autorevolezza.
L’ultima traccia – ma è forse la prima in ordine di priorità – riguarda il lavoro di rammendo, di ricucitura del nostro tessuto sociale e comunitario e di noi stessi che dovremo fare. Del nostro tessuto comunitario, perché non è vero che il virus sia una livella, perché colpisce tutti, ma è altresì vero il contrario: esso è destinato ad allargare pericolosamente le diseguaglianze socio-economiche nel nostro paese e nel mondo.
Chi ha e può godere di un reddito alto e di un patrimonio rilevante supererà la crisi in maniera indolore, chi ha una condizione di precarietà lavorativa ed un reddito insicuro o intermittente rischia di essere spinto ancora più in basso. Il dato paradossale inoltre è che molti di quanti continuano ad andare al lavoro in questi giorni perché impiegati nelle filiere dei servizi classificati essenziali sono donne e uomini sovente contrattualizzati a tempo determinato quando non precari, e che tanta parte dei posti di lavoro cancellati in queste settimane (pensiamo al solo settore del turismo) facevano riferimento a persone che in essi avevano la loro pressoché unica fonte di reddito.
Un rammendo anche di noi stessi, perché l’isolamento sociale e la domiciliarità “forzosa” mettono alle strette la parte più intima di noi stessi, i rapporti e le relazioni familiari, in un paese come il nostro in cui la famiglia da un lato è un fattore centrale del tessuto sociale, di un’economia mutualistica di base, ma è anche il luogo dove avvengono la maggior parte delle violenze sulle donne. Una condizione come quella che stiamo vivendo inevitabilmente porta il singolo a ridefinire le relazioni, sia quelle personali basiche, sia quelle sociali più ampie, e non può non avere anche ricadute politiche.
Ecco, questo sono solo alcune tracce di riflessione, senza dubbio abbozzate, senza dubbio da perfezionare, che credo dovremmo porci per comprendere come sarà il mondo di domani, e per potere sia pure in minima pare incidere in esso. Perché questo sia possibile serve necessariamente un’intelligenza collettiva (un partito) in grado, soprattutto a sinistra, di sapere cogliere questa sfida. Perché sarà soprattutto la sinistra ad essere interrogata, a dimostrare la capacità di sapere ricostruire il mondo, a partire dai suoi fondamentali: il lavoro, il rapporto con il creato, la lotta alle disuguaglianze.