Ad avviso di alcuni commentatori, la sentenza della Corte d’Assise di Palermo che – in parziale riforma della decisione di primo grado – ha assolto gli ufficiali del ROS Mori e De Donno nonché l’ex parlamentare Marcello Dell’Utri dall’accusa di violenza o minaccia a corpo politico dello Stato rappresenterebbe la pagina conclusiva del Romanzo delle stragi del 1992 e del 1993, il filo di Arianna in grado di condurre il Paese fuori dalle troppe ombre che agitano il Labirinto della Trattativa.
Nessuna trattativa, nessun colpevole, almeno tra quelli del Mondo di sopra, concludono (invero frettolosamente) i nostri commentatori. Le interlocuzioni avviate dai Carabinieri con Ciancimino e Cinà rientravano nella dinamica di una spregiudicata e disperata operazione di polizia, volta a favorire la cattura dei boss latitanti; Dell’Utri non veicolò le minacce di Bagarella presso il piano nobile di Palazzo Chigi, per condizionare le scelte del nascente Governo Berlusconi. Basta con i sospetti, basta con i misteri, a margine di un processo “che non avrebbe neanche dovuto avere inizio”, basato esclusivamente sui teoremi e sulle congetture del solito manipolo di “professionisti dell’Antimafia”.
Nessuna trattativa, nessun colpevole. O meglio: nessun colpevole, nessuna trattativa.
Le cose stanno veramente così? Forse no. Le stesse formule assolutorie impiegate dalla Corte palermitana (“il fatto non costituisce reato”; “l’imputato non ha commesso il fatto”) nonché la conferma della condanna pronunciata in confronto di Antonino Cinà sembrano presupporre che il “fatto”, cioè la trattativa, non debba essere messo in discussione, venendo viceversa contestata (con riguardo a Mori e De Donno) la riconducibilità del fatto stesso alla figura di reato prevista dall’art. 338 del Codice Penale, ovvero, con particolare riferimento alla posizione di dell’Utri, l’effettiva partecipazione dell’imputato alla sua consumazione.
Se dunque il fatto non viene messo in discussione, se la trattativa in concreto vi è stata, rimangono aperti una molteplicità di interrogativi che i commentatori di cui sopra hanno finora (colpevolmente o volutamente) evitato di considerare. Premesso che tuttora non sono chiari gli argomenti al tempo spendibili dal ROS per convincere i luogotenenti della Cupola corleonese a recedere dalla loro condizione di eterni inafferrabili, l’esistenza della trattativa impone infatti di spiegare come due investigatori possano avere – di loro iniziativa, senza alcun coordinamento con i magistrati impiegati nelle indagini sulla strage di Capaci e sull’omicidio di Salvo Lima e soprattutto senza incorrere in alcuna conseguenza sul piano disciplinare e della progressione della carriera – avviato un’interlocuzione con Cosa Nostra, destinata a costituire (nella mente di Riina) il viatico ideale per la strage di Via D’Amelio.
Non solo: il “fatto-trattativa” richiede di ritornare una volta di più sulla decisione dell’allora Guardasigilli Conso di non rinnovare il regime carcerario previsto dall’articolo 41 bis a centoquaranta detenuti: decisione difficilmente liquidabile alla stregua di una determinazione isolata e individuale, alla quale il ministro non è mai stato a chiamato a rispondere sul piano politico e istituzionale. “Un gesto distensivo per porre fine alle stragi”, un “segnale di disponibilità verso l’ala moderata di Cosa Nostra guidata da Provenzano”: ma una manifestazione di disponibilità non è forse di per sé indicativa di una trattativa in corso?
Dubbi, incongruenze, zone d’ombra, destinate a confluire nel “mistero dei misteri”: quello del mancato attentato allo Stadio Olimpico, della Mercedes carica di tritolo pronta ad esplodere su Viale dei Gladiatori, dell’innesco che non funziona, di Spatuzza richiamato in tutta fretta a Palermo, del silenzio della Mafia dopo il fuoco delle stragi. Da dove arriva, quel silenzio? Dal fatto che Cosa Nostra, dinanzi alla fermezza dello Stato, aveva d’un colpo preso atto della fallacia della strategia delle bombe? O dal fatto che nuovi interpreti e nuovi equilibri si delineavano tra mondo di sopra e mondo di sotto?
Nessuna trattativa, nessun colpevole. O meglio: nessun colpevole, nessuna trattativa. Più si rievocano i passaggi centrali della stagione in cui il Paese agonizzava nel fuoco corleonese, meno la posizione dei nostri frettolosi commentatori regge il confronto con la realtà dei fatti. Solo un’attenta lettura delle motivazioni della sentenza d’appello potrà chiarire come alcuni dei punti più controversi della Storia italiana recente debbano inquadrarsi nel ragionamento dei giudici. Ma una prima risposta già viene offerta dalla semplice lettura del dispositivo: le formule assolutorie scelte dalla Corte palermitana non bastano a supportare la logica secondo cui “quel processo non s’aveva da fare”; se la trattativa è esistita, le sue ombre e i suoi misteri rimangono intatti. Se la trattativa è esistita, l’uscita dal labirinto è ancora molto lontana.