La destra ha letto Gramsci, la sinistra no. O almeno non più. Questa la considerazione amara da fare davanti alla gestazione del governo più a destra del paese da almeno un secolo a questa parte. Quando, in maniera inquietante, si affaccia una nuova toponomastica dei ministeri che non lascia spazio ad ambiguità di sorta, che annuncia un conflitto sul vocabolario che, nel riesumare cianfrusaglie lessicali del passato, ristabilisce in maniera tanto semplice quanto inequivocabile il succo della differenza essenziale tra destra e sinistra.
Come dire, spuntano da tutte le parti i fantasmi disoccupati di una destra ideologica che rivendica la sua identità senza fronzoli e senza timori reverenziali. E che gioca a viso aperto la battaglia delle parole e dunque dell’egemonia.
Perché questa destra possiede ed esibisce una cultura politica autonoma, rivendica totem mitologici da trasmettere alle generazioni successive e non teme di “fare storia”. Non è un caso che si collochi – in forme ovviamente diverse e persino contraddittorie – dentro un grande movimento mondiale di reazione a una globalizzazione che ha ucciso le classi medie occidentali, che smettono di concepirsi come fattore di progresso e di emancipazione e rinculano nella domanda di protezione – prima ancora che economica – culturale.
Il successo della destra ideologica sta qui: ridurre tutto a un fatto folcloristico sarebbe un errore di arroganza imperdonabile. Qui non torna la politica, torna semplicemente “una” politica.
Sovranità: parola manomessa, svuotata del suo significato primigenio di devoluzione democratica del potere verso il basso, eppure abusata dalla destra in maniera sapiente al servizio di disegni di potenza.
Merito: parola che – isolata dall’uguaglianza – diventa la certificazione dell’ascensore sociale bloccato in eterno a vantaggio di chi è forte di natura o di censo.
Natalità: parola che prova a rispondere all’emergenza demografica, ristabilendo tuttavia una gerarchia rigida nelle relazioni sociali e familiari tra i generi mettendo un implicito “price cap” sulle pari opportunità che stride clamorosamente con l’assoluta novità della prima donna a Palazzo Chigi nella storia italiana.
La sfida dunque è su chi dispone di più parole.
Certo, nel frattempo sopravvive e non va sottovalutato un notevole riflesso di establishment e qualche conflitto di interesse piuttosto palese, soprattutto nella risacca para-atlantista della destra che difende disinvoltamente il Made in Italy delle armi. Ma non batti questa destra scommettendo sul fatto che non sanno scrivere i decreti, che confondono le deleghe dei singoli ministri all’uscita del confessionale quirinalizio o puntando una fiche sull’ennesimo audio destabilizzante di un Berlusconi senile in debito di protagonismo. La batti se ricostruisci un matrimonio tra sinistra e cultura.
La destra questa operazione l’ha fatta, senza subalternità e senza paura di essere giudicata da magisteri intellettuali che all’occorrenza non hanno esitato a cedere l’autonomia della politica alla potenza della tecnica. La destra ha vinto perché aveva più parole di noi. E oggi governa con quelle parole.
Non è un problema di comunicazione, attenzione. È una sfida profondamente politica. Le parole sono quelle che mobilitano i popoli e, dunque, gli interessi sociali. Senza una grande ambizione di “direzione morale e intellettuale” di un paese non resta che appaltare ai “competenti” il timone della nave. È quello che abbiamo fatto troppe volte noi, in questi anni. E alla fine abbiamo lasciato la fatica dell’egemonia ad altri. E la sceneggiatura la vediamo drammaticamente squadernata oggi, nel primo disperante giorno del Governo M.