La scissione del Movimento Cinque stelle muove il quadro politico. Sbaglieremmo a pensare che sia solo una lite tra comari. Innanzitutto perché contribuisce a trasformare la Lega in prima forza parlamentare: mi risulta difficile, dunque, considerare un capolavoro per la stabilità del governo Draghi la scelta di Di Maio. Siamo più vicini a un cupio dissolvi che al dispiegamento di una strategia politica razionale. Per queste ragioni nell’area del centrosinistra oggi si impone un supplemento di riflessione che non può essere più rimandato.
A meno di un anno dal voto il nostro campo non è ancora formato, vive un dibattito asfittico, è assai poco decifrabile sul piano politico e sociale. Abbiamo parlato di campo largo, ma non abbiamo definito ancora cosa significhi e quali confini culturali prima ancora che politici esso debba avere. Se è semplicemente una santa alleanza contro la destra a trazione Meloni, questa condizione non è più sufficiente. Poteva valere negli anni ’90, quando avevi blocchi elettorali fidelizzati e sommabili; nel tempo dell’astensionismo di massa questo schema di gioco rischia di essere una pia illusione.
Il tema è se il campo largo è innanzitutto un campo dei progressisti o se si riduce a un’ammucchiata di forze contraddittorie che vogliono prolungare una stagione di governo all’insegna dell’unità nazionale. Occorre decidere se la formula politica del governo Draghi rappresenta un destino oppure se è una parentesi eccezionale e irripetibile. Se non rispondiamo a questa domanda, la discussione sul campo largo resta pura accademia per appassionati del genere.
Io credo che la formula delle larghe intese non può essere più riproponibile, pena una dimensione sempre più larga del distacco dei cittadini dalla partecipazione alla vita pubblica. E che si dovrà tornare a una dialettica più tradizionale tra destra e sinistra, maggioritario o proporzionale che sia.
I cambi di casacche, i gruppi che nascono e muoiono come funghi, le giravolte culturali e ideologiche hanno rappresentato il tratto costitutivo di una legislatura che ha dovuto affrontare passaggi epocali, dalla pandemia alla guerra, passando per una crisi economica che rischia di acuirsi a ottobre con effetti non calcolabili sul piano della tenuta sociale del paese. Immaginare che questo non si scarichi sulla qualità dell’offerta politica e che tutto resti immobile fino al 2023 è una profezia priva di fondamento.
1. A destra tenteranno di arginare il fenomeno Meloni, accentuando la competizione sul terreno della critica al Governo. Salvini in questi mesi si è agitato in mille direzioni (dalla presidenza della Repubblica al viaggio poi abortito a Mosca) senza però invertire il declino della Lega e la sua riduzione a junior partner della coalizione. Per evitare di restare sotto il tacco di Fratelli d’Italia, Salvini dovrebbe tentare la via di una riforma elettorale proporzionale che gli consenta mani libere nelle prossime elezioni, ma difficilmente imboccherà questa strada. Più probabile che radicalizzi la sua proposta politica, facendo ancora più il contraltare di lotta e di governo. Non so se funzionerà, ma è chiaro che nei prossimi mesi faremo i conti con una destra che gareggerà al proprio interno radicalizzandosi. Non guarderanno in faccia a nessuno, perché non è mai esistito un centrodestra liberale in Italia.
2. Il centro è l’oggetto di tutte le analisi giornalistiche di questi giorni e vive un sovraffollamento senza precedenti. Tante interviste, poche idee, forse pochissimi voti. Il centro non ha leadership federatrici, né, a mio parere, un vento della storia che spiri dalle sue parti. Si confonde una stagione “centrale” di governo – quella di Draghi geograficamente lo è visto che vede la convergenza di ipotesi politiche opposte in una fase emergenziale – con uno spazio culturale, sociale ed elettorale. I protagonisti di questo nuovo centro indugiano nella politologia, ma non fanno i conti con la società, che è attraversata da conflitti molto radicali e che non insegue una proposta di conservazione dello status quo. Si suonano le campane a morto del populismo – ammesso che questa definizione abbia ancora un senso – scambiando la crisi del Movimento Cinque Stelle con la fine del “ciclo della rabbia” che portò quella forza politica a essere votata da un italiano su tre. La conferma che il centrismo che viene proposto è la certificazione di una strategia della palude, dove anche se perdi le elezioni stai al governo a prescindere.
3. Noi crediamo nel campo del progresso, dei diritti, della giustizia sociale e ambientale. Presentarsi come la forza della stabilità a tutti i costi rischia di consegnarci ancora una volta al ruolo di catalizzatore di tutti i malcontenti. Ci siamo già passati e non è andata bene. Nessuno può immaginare di buttare fuori qualcun altro, ma pensare che questo significhi affievolire una futura proposta di governo socialmente leggibile vuol dire consegnarsi alla sconfitta certa. Significa che non puoi tornare indietro rispetto alla nuova centralità di beni pubblici da sottrarre al mercato – sanità e scuola in primis -, significa che devi dire addio a quelle leggi che hanno ridotto i diritti del lavoro e consegnato a una generazione un orizzonte di precarietà, significa che se non vuoi fare altro debito devi rivedere profondamente il fisco mettendo davanti il principio di progressività e di generalità, significa che il reddito di cittadinanza va riformato e non abolito.
Articolo Uno ha svolto fino ad oggi, nonostante le nostre dimensioni, un ruolo di cerniera nella coalizione progressista riconosciuto da tutti. Il nostro congresso ne è stata la dimostrazione. Io penso che abbiamo fatto bene a perseguire questo disegno e dobbiamo continuare a farlo. È il nostro valore aggiunto; ma non basta più.
Vedo troppi benpensanti – anche nel campo democratico – che vogliono ricacciare i Cinque Stelle di Giuseppe Conte in un angolo, schiacciandolo sull’estremismo. Addirittura Di Maio ha dichiarato – evidentemente preso dalla foga di giustificare una rottura a freddo – che il suo ex partito mette a rischio la sicurezza nazionale per la posizione critica sulla guerra in Ucraina. Come fossero una Casapound qualsiasi. Nessuno spiega però come sia possibile che, nonostante l’oggettivo ridimensionamento elettorale dei grillini, a sinistra – dal Pd alle proposte più radicali – non c’è una forza che guadagna un voto da loro, soprattutto nei ceti popolari. Piuttosto che venire da noi, scelgono la strada dell’astensione. Vuol dire che la nostra attuale configurazione – a partire dalle forze che si riconoscono nel campo del socialismo europeo – non riesce a uscire dalla dimensione sociale della rappresentanza dei protetti e dei garantiti.
Abbiamo sbagliato in passato a pensare di subappaltare al Movimento Cinque Stelle il corpo a corpo con la destra nei territori del disagio e della marginalità. Perché oggi se scompaiono da quelle mappe elettorali, resta solo la destra a fare la parte del leone. Per questo bisogna fare in fretta e bene. Letta annuncia di voler raccogliere a ottobre forze civiche e politiche che in questi mesi si sono mosse insieme e provare a mettere in campo una proposta nuova. Giusto, ma quella proposta deve essere calibrata su quello che manca, non su quello che c’è già. Perché le ragioni che hanno alimentato l’infezione populista non sono state anestetizzate nemmeno dal governo Draghi. Sono fiumi carsici che al voto riemergono improvvisamente e fanno saltare equilibri che apparivano consolidati e immutabili. Non possiamo farli andare nuovamente a destra, bisogna provare a interpretarli e dargli uno sbocco politico innovativo, senza attardarci a guardare troppo i sommovimenti di un centrismo narcisista e trasformista. Bisogna scartare, non lasciarsi incartare.