La parola ‘scissione’ è stata utilizzata nelle ultima fase del renzismo con una nemmeno tanto nascosta venatura clinico-colpevolizzante. La parte scissa è colpevole. Colpevole di aver creato dissidio dentro ad un organismo democratico. Colpevole di odio, di settarismo. Colpevole di cercare semplicemente l’intralcio al segretario, democraticamente eletto dai membri del partito. In questi ultimi giorni, scopro anche che sarebbe stata colpevole di aver macinato e tramato nell’ombra con la regia di vecchissimi capibastone del Pd, per orchestrare il distacco col solo scopo di indebolire e togliere terreno dai piedi del leader che vinse le primarie, ma che perse il referendum, e mai passò un solo vaglio elettorale.
Come si è arrivati alla famigerata ‘scissione’, chi ha mostrato aderenza al principio di realtà e, soprattutto, fede in quelle che sono le dinamiche democratiche di un partito? Perché, alla fine della fiera non lo si dimentichi, la vera contrapposizione è stata tra chi voleva tornare alle urne la mattina dopo la sberla referendaria, riproponendo se stesso e la sua cerchia amicale, contro coloro i quali hanno chiesto di discutere. Della leadership, degli errori commessi. Della classe dirigente che ha portato un partito di massa a sbattere contro la banchisa. Richieste sane, proprie di un corpo dialettico, che non dovrebbe conoscere assolutismi, diktat, o verità imposte. Istanze che sono state rigettate da Telemaco che di mettersi a un tavolo di discussione, qualsiasi tavolo che preveda un confronto, anche incalzante, non ne ha mai voluto sapere. Perché detentore di una verità, la quale, dunque, è di per sé inconfutabile. La pervicace idea che il confronto con chi la pensa in modo diverso sia una evitabile seccatura da liquidare con battute sarcastiche e con l’eliminazione delle voci dissonanti, ha condotto a questo dibattito senza il contraddittorio. ‘Scissione’, termine tremebondo, con echi clinici che hanno risuonato nelle stanze torinesi, e nei whatsapp dei commensali che non vedevano l’ora di avere tra le mani un hashtag da scambiarsi e agitare a prova della loro indefessa buona fede e autoinvestitura di ‘pastori’ verso il sole dell’avvenire. ‘Noi ci abbiamo provato, ma la parte disfunzionale, che non sta alle regole, si è scissa’. Cioè se ne è andata, ha lasciato sua sponte, perché incapace di integrarsi con il tessuto democratico. La questione a monte, è esattamente rovesciata.
Quando tu sei il capo, e ti prendi responsabilità e decisioni, e sbatti, tu sei l’artefice di un malessere del corpo, in questo caso il Pd . Gli scissionisti, con il loro interrogare, incalzare, criticare, anche aspramente, se la vogliamo vedere usando come metafora l’apparato psichico, sono un sintomo. Un sintomo in senso lacaniano, che fa segno, messaggio e metafora. Come quando ti rechi dalla tua fidanzata, e sai di averla tradita, mentre passeggi e ti ripeti ‘è tutto giusto ciò che ho fatto, è la cosa da fare’, ma l’attacco di panico ti inchioda prima di suonare il suo campanello, o un lapsus ti fa scambiare il nome dell’amante con quello della patner. Il sintomo parla, fa dolore, smuove, interroga e chiede. E va ascoltato.
Telemaco perde le amministrative, prende un cazzotto col referendum che doveva incoronarlo. Cosa fa dunque il corpo Pd? Si agita, si muove. Porta critiche, obietta. Alla frase ‘va tutto bene, io sono il capo, si fa come dico io, non si rettifica nulla’, mostra i segni di un malessere che mugugna. Ma, e qua sta l’inversione, il capo che pone le basi del malcontento, e non sa ascoltarlo, accusa coloro i quali ne sono portatori di essere cattivi, odianti e autori della scissione. Vale a dire di quella divisione che lui stesso ha operato, ponendo punti padronali non negoziabili. Costume, buon senso, padronanza del simbolico, avrebbero dovuto portare a un rettifica. Un redde rationem con noi, gli italiani, e col suo partito. Il Pd, partito da lui frantumato e diviso, che conserva una struttura e una base. Altre idee, opinioni. Una ritualità del confronto, forse più nei circoli di base che nelle riunioni di élite, e questo lo può sapere solo chi si è sorbito interminabili riunioni di periferia nelle più sperdute circoscrizioni, nelle quali si metteva al voto anche la scelta di ordinare coca o pepsi. Quella famiglia con la quale il figlio un po’ bulletto, avrebbe dovuto fare la famosa ‘riunione’ che si è soliti allestire quando il ragazzaccio torna di notte, con i pantaloni sdruciti e il verbale della municipale. Al cospetto non solo dei padri, ma anche dei fratelli. Dei cugini, degli ziii.
Invece costui, intravedendo il limite, la sanzione, la reprimenda, si guarda bene dal sottoporvisi. Questo momento lo fugge, lo evita lanciandosi nuovamente ai 200 all’ora. Nessuna autocritica, assoluta indisponibilità ad accettare altre idee, altre opinioni. Di nuovo, di corsa! Per evitare quel confronto che, forse, metterebbe in pericolo il trono. Corsa contro il tempo, per evitare un secondo referendum popolare sul suo operato, memore del cazzotto in faccia preso quella sera del basta un sì. Consapevole che, con ogni probabilità, un altro no stavolta lo lascerebbe definitivamente al tappeto. Come ha detto un ministro del suo governo, le elezioni erano una della modalità di non incontrare per la seconda volta quel reale popolare che ha schiantato la macchina presa a nolo. No, il confronto con le altre anime della famiglia, Telemaco non lo vuole. Scappa fuori accusandoli di non averlo capito, di essere ingrati! Si ritaglia un luogo lontano, indenne da critiche, dal quale ricominciare la guerra fratricida, stavolta colpendo basso, bassissimo. Chi? I suoi stessi parlamentari, usando l’ umiliante l’argomento del vitalizio per il quale, a suo dire, essi cercherebbero di tirare avanti la legislatura. Telemaco, troppo smemorato per ricordarsi di cancellarli quei vitalizi in tre anni (3) di governo, ma abbastanza vecchio da usarli biecamente come arma a pallettoni contro chi va nicchiando alla sua reinconronazione.
Vi narrano del Telemaco, colui il quale salta il fossato dei padri immobili e avvinghiati al potere, per segnare una strada nuova. Un ‘innovatore, un Céline del legame sociale, un Platini alla corte del catenacciaro Trapattoni. Una storia, questa, nella quale si favoleggia di una generazione arcigna che ha pensato di fermare il futuro (quello che prima o poi torna), così che ‘muoia Sansone con tutti i Filistei’, messa alla striglia da chi, in modo legittimo e cristallino, reclama il suo spazio e la sua eredità. Giustamente irrequieto per quel malloppo che papà non vuole mollare. Insomma, un giusto investito dalla missione di portare ‘il bene’. E mentre questa narrazione va in onda, sottotraccia si scorge un agire perverso che, fregandosene delle regole alle quali tutti siamo chiamati a rispondere, tentando di forzarle in ogni modo, saltabecca mediaticamante da un luogo all’altro, garantendosi uno stato di perenne intoccabilità. Telemaco evita e non risponde. Più un SilverSurfer della politica che non l’erede designato. Non se la sente mica troppo di pagare il fio del tubo rotto davanti alla riunione condominiale. Le leggi europee ci sono. E chi fa parte della famiglia è tenuto a rispettarle. Il figlio vigoroso lo sapeva bene. Il deficit delle sue leggi di bilancio era troppo alto, insomma, il giovane fustigatore dei costumi paterni, spendeva più di quel che aveva. Con la nostra Visa. E oggi, quello che la stampa internazionale (tutta) chiama ‘il conto di Renzi, arriva sotto forma di tasse e balzelli ( 3,4 miliardi è la stima della manovra aggiuntiva), che pagheremo noi. Noi sfigati, intrappolati nella catena generazionale.