La scorsa settimana si è recato in Italia, per una serie di conferenze pubbliche (e incontri privati) un signore sconosciuto ai più. La notizie è stata data attraverso un unico, breve, articolo sulla stampa nazionale. Occhi penetranti, incarnato pallido, barba lunga e ben curata. Il suo nome è Alexandr Dugin ed è l’ideologo di Vladimir Putin. Questo signore dal tratto aristocratico ha studiato per decenni, abbozzando e poi rifinendo con maestria una teoria politica e una visione ideale e geo-politica da lui definita – nell’incontro pubblico a Casa Pound con Diego Fusaro della scorsa settimana – “la quarta colonna” o “metafisica del populismo”.
L’Italia è – nelle parole di Dugin – il terreno di sperimentazione di una visione teorica che – per quanto mostruosa la si possa ritenere – si nutre di elementi del comunismo e del nazismo e del liberismo, volendo però rappresentare una sintesi e un superamento di queste tre “colonne”. A sentirlo così sembrerebbe un invasato; tra i bene informati però il “Rasputin di Putin” incute paura. Non esagera: è invero lui il pensatore che ha più influenzato Putin e che, per tramite di questo, tira i fili delle idee che oggi si diffondono in Europa.
La sperimentazione sembra dare innegabili risultati elettorali: Salvini recita con cura il copione scritto a Mosca, e rivisto negli anni nel dialogo col lepenismo e con i diversi intellettuale neo-nazionalisti sparsi per l’Europa. Mentre giura sul rosario davanti al Duomo di Milano, Salvini promette trent’anni di governo e indica una visione di allargamento, una “Lega delle leghe dei popoli”. E il suo consenso non conosce declino.
A guardare negli occhi la realtà, una certa abitudine all’attivismo porterebbe a dire che “dobbiamo fare qualcosa!”.
Di fronte alla belva che avanza, alla folla che legittima un nuovo “monarchismo dal basso” (questa la visione di Dugin su Putin che – suo malgrado – sarebbe richiesto dal popolo di farsi leader forte – monarca dal basso e in questo non dittatore – per difendere l’identità della “Russia eterna”), verrebbe voglia di fare una raccolta di firme, una manifestazione contro il fascismo. Magari una fiaccolata o, perché no, una bella conferenza politica in cui dirci che “la Sinistra è quella della superiorità morale, quella che dà voce a chi non ha voce, quella del lavoro e della scuola pubblica, quella del primo maggio, e bla bla bla”.
Certo, possiamo farlo. Se però, prima di gettarci a “fare qualcosa”, pensassimo a interrogare i nostri avi? Cosa ci consiglierebbero di fare Gramsci e Gobetti? Gramsci, forse, ci esorterebbe dicendoci: “Studiate, perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza”.
E davvero di studio bisogna farne tanto: il copione che Salvini mette in scena (con grande successo di pubblico) è stato scritto da menti brillanti, che fanno saltare una a una tutte le contraddizioni della “sinistra” contemporanea, e in particolare di una classe dirigente che – indipendentemente dal dato anagrafico – da decenni ha perso l’abitudine allo studio e alla formazione.
Gobetti aveva previsto che il fascismo sarebbe durato vent’anni comprendendo come non si fosse ancora definito un antidoto ideale alle idee che lo resero così velocemente e capillarmente popolare.
Oggi il problema è, al contempo, simile e diverso. E’ simile perché manca una comprensione diffusa – a livello di intellighenzia – sul cosa stia realmente avvenendo a livello ideale, e dunque manca una contro-proposta capace di criticare “dal di dentro” la logica interna della “quarta colonna”.
Solo comprendendo a fondo il “motore immobile” del populismo post-moderno potremo infatti vincere una battaglia che- come insegnava Olivetti- è anzitutto una lotta fra idee.
Il problema è però anche diverso dal passato: non si tratta più, come negli anni ’30, di costruire un paradigma ideologico, ma di riscoprire quel lavoro (di molti, moltissimi pensatori) volto a “preparare i giovani alla lotta delle idee”, come diceva Gobetti.
In quest’ottica, cerchiamo di tratteggiare alcune questioni fondamentali, lasciando poi agli intrepidi la ricerca della pietra filosofale che sola può risparmiarci un altro ventennio.
I nuovi populismi sono fieri di esserlo. Il discorso del Primo Ministro Conte non lascia spazio a dubbi: abbiamo un governo fieramente populista.
Questa fierezza deriva dal ritenersi autentici interpreti degli interessi del popolo (attenzione: popolo, né nazione né classi subalterne) contro una élite globalista, mondialista che – nella ricostruzione proposta da Dugin – non mira solo a eliminare i confini alla libera circolazione di capitali e di beni (e, in parte, di persone), ma che è ritenuta anche responsabile dell’inculturazione – su scala mondiale – di un pensiero unico (economicamente liberista e moralmente libertario) che sradica i popoli dalle loro identità ataviche, dalle loro “radici identitarie storiche e culturali” (ci spiega Fusaro).
I populisti dicono insomma “potere al popolo” in modo concettualmente non dissimile – almeno all’apparenza – di quanto D’Alema affermava nel 2016 circa la necessità di modificare le leggi elettorali al fine di “ridare lo scettro al sovrano, cioè ai cittadini”. Il radicare il popolo nella sua cultura storica è, peraltro, parte della storia del comunismo reale: dalla rivoluzione culturale di Mao fino alla versione più folkloristica di Ceausescu.
Una volta dato lo scettro ai cittadini, chi siamo noi per dire loro cosa farne? Se in Russia questi cittadini, che collettivamente sono “sovrano”, decidono di cedere lo scettro al nuovo zar del popolo; mentre magari in Europa gli scettri si coalizzeranno in un mazzo (o fascio di scettri) detto “Lega delle leghe”, perché non dovrebbero poterlo fare? Forse che noi siamo in grado di risolvere il dilemma su come possa la democrazia essere strumento di raggiungimento del bene comune nel lungo periodo?
Il punto nodale era e rimane quello del contenuto dello scettro. Cos’è che può legittimamente fare il sovrano, sia esso il re pre-repubblicano oppure questo fantomatico “popolo”?
Dopo le esperienze dei totalitarismi novecenteschi, con la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 si era ritenuto necessario definire dei limiti a questa sovranità, affinché essa non potesse tradursi nella libertà di sopruso del più forte sul più debole, della maggioranza sulle minoranze.
Proprio contro questo approccio si è scagliato Dugin (con Fusaro al seguito). La democrazia non può tollerare la “demo-fobia”, hanno sostenuto. La maggioranza dev’essere libera, altrimenti si instaurerebbe una dittatura delle minoranze, guidata da un’elite cosmopolita che – nell’analisi presentata – tenderebbe a egemonizzare culturalmente e istituzionalmente il mondo.
E di fronte a pochi miliardari, che creano fondazioni benefiche che – su scala planetaria – portano avanti la loro visione del mondo e delle società, non è forse “di sinistra” rivendicare che si limiti un tale potere di influenzare di fatto idee, costumi, stili di vita, da parte di pochi oligarchi del capitale? La risposta non è semplice.
Dugin e Fusaro ci hanno proposto di difendere le costituzioni dalle interferenze globaliste, di garantire che i popoli (e dunque le maggioranze all’interno di questi) siano i veri artefici del loro destino, e dunque anche i fabbri delle loro proprie costituzioni.
Una tale visione crea non pochi problemi, specialmente a “sinistra”. Già Marx – ne La Questione Ebraica – sosteneva che i diritti non precedono lo stato, ma ne presuppongono l’esistenza.
Secondo questa visione i “diritti umani” altro non sono che una sovra-struttura. Il diritto non dipende da un giusto e da uno sbagliato (come entità metafisiche che precedono l’uomo e che questi può solo- entro una certa misura- scoprire e mai produrre). No. Per la critica marxista (e, attraverso di essa, per la società contemporanea nella sua trasversale medianità) il diritto è mero strumento di lotta per far prevalere i propri interessi (siano essi economici, filosofici, morali, etc.).
Questo è il motivo per il quale già nel 2000 D’Alema, che rimane uno dei politici di sinistra più intellettualmente attrezzati, se da un lato proponeva l’Europa come una comunità di valori che seppur radicati nel cristianesimo “vanno certamente oltre, si propongono come universali”, dall’altro concepiva questi valori essenzialmente come dati costituzionali, come costituzioni che – essendo accomunate da una medesima cornice di visione etico-morale – avrebbero permesso la costruzione di una Comunità Europea fondata su tale coincidenza valoriale fra costituzioni. D’Alema proviene, non a caso, da una formazione all’internazionalismo, cosa ben diversa dal transnazionalismo e soprattutto dall’universalismo.
Le costituzioni però possono cambiare, e anzi sono tanto più chiamate a cambiare quanto più esse altro non si considerino che lo specchio dei rapporti di forza (economica, ma anche ideale) fra le classi sociali di cui si compone quel “popolo” che, da sovrano, è ritenuto legittimato a darsi sempre e nuovamente le proprie regole del gioco.
Il marxismo e i suoi eredi – anche gli enfant prodige – sono dunque incapaci di fronteggiare (idealmente, prim’ancora che alle urne) la sfida dei nuovi sovranismi. Questi, come peraltro fa Fusaro, si nutrono di una sapiente (e moralmente micidiale) miscela di idee già marxiste e di visioni totalitariste, xenofobe, ideologicamente identitarie; miscela mortifera – certo – ma così ben combinata che in tanti la bevono in buona fede, e ancora nessuno sembra esser stato in grado di identificare l’antidoto.
Le riforme della costituzione ungherese (2016 e 2018), la politica culturale austriaca, il referendum svizzero del 2009, son tutti segni di questa diffusione a macchia d’olio che – rimasta sconosciuta ai più – ha reso molti (Berlusconi compreso) impreparati rispetto alla magnitudo con cui si è materializzato in Italia il salvinismo “made in quarta colonna”.
Dugin chiede di difendere le costituzioni dall’ “ideologia dei diritti umani”, definita come un “terrorismo” che “distrugge il contesto giuridico degli stati”.
Questa critica ai diritti umani, esecrabile per i toni, fa però presa su gran parte degli intellettuali e dei costituzionalisti, anche (e spesso soprattutto) di sinistra.
Chi può negare che già Benedetto Croce si era espresso contro una dichiarazione universale dei diritti dell’uomo? Chi può negare che perfino Maritain dava conto della difficoltà di sostenere intellettualmente un’universalità morale fortemente contestata già nel 1947? Chi può negare che guerre sono state compiute con la giustificazione di “esportare” la democrazia e i “diritti umani”? Chi può negare che a molti Paesi in via di sviluppo sono state chieste riforme giuridiche volte a sviluppare una concezione “occidentale” dei diritti (economici e civili) quale condizione per accedere al finanziamento internazionale? Chi può negare che, di fronte alla proliferazione dei diritti umani, esimi studiosi di comprovata estrazione “di sinistra” hanno da anni messo in guardia, suggerendo un “approccio minimalista”? Chi può negare che da decenni l’Africa, l’Asia e l’America latina hanno criticato i diritti umani come prodotto filosofico occidentale che aspira all’egemonia culturale e si legittima attraverso una supposta ( e mai provata) superiorità morale?
Tutte queste orecchie sono sensibili al richiamo del pifferaio di Mosca e molte di esse già si stanno traducendo in allegati per una comune visione geopolitica. Il trionfo della “quarta colonna” è più che possibile.
Quando Dugin attacca la demofobia tipica dei meccanismi di contro bilanciamento del principio maggioritario, egli fa saltare un’altra contraddizione storica della sinistra: si dimentica oggi che il PCI puntava sì all’emancipazione delle classi proletarie, ma non per questo non era cosciente di come spesso i proletari stessi fossero i più avversi alle riforme sociali. Questo sano sospetto verso il “popolo”, spesso pronto a lanciarsi acriticamente nelle braccia della figura carismatica o dell’ideologia assordante, ha fatto correttamente parlare di “antifascismo antiplebeo”. Di esso, oggi, larga parte della sinistra non si è solo dimenticata, ma si tende quasi a vergognarsene. Oggi essere di sinistra è troppo spesso sinonimo di buonismo, del santificare i sottoproletari quasi che la povertà materiale togliesse l’arbitrio (e dunque la responsabilità e la colpa) e la ricchezza non potesse coesistere con la povertà ideale e spirituale (queste si radice dell’incolpevole banalità del male). No. Ci sono poveri che sì sono sfruttati dai padroni, ma che al posto di questi farebbero ancora peggio. Ci sono immigrati sfruttati dagli italiani, e immigrati che sfruttano i propri connazionali ancor peggio dei peggiori italiani. Ci sono persone che debbono la propria ricchezza al proprio creare e inventare e che pure sono disposti a condividerla, purché questo sia un servizio al bene comune e non una forma di accettazione di tendenze parassitarie radicate nell’animo di tutti (ricchi o poveri che questi siano).
E’ il buonismo incapace e miope, generato dall’incesto dei vecchi partiti con quella “new age” che ha tolto sostanza ai valori e alle convinzioni politiche, che fatica a non seguire la narrazione populista: “una testa un voto”, “potere al popolo”, “tutta colpa dell’elite” sono slogan che in molti sono impreparati a vagliare con occhio critico.
Tornare a Gramsci, a Gobetti (Piero e Ada), a Jervis e a quel pantheon di vere convinzioni politiche e ideali è dunque fondamentale poiché sono queste figure a dover essere la determinante maggioranza nella “comunità” politica della sinistra. Essi sono depositari di quelle idee, antiche e sempre nuove, che noi siamo oggi chiamati a ripensare.
La pozione sovranista importata da Mosca è letale, peraltro, non solo per i buoni “compagni”, la cui formazione politica ha smesso di poter esser chiamata tale quando il muro di Berlino non era ancora stato del tutto abbattuto. Pure i cattolici – che in Italia almeno “nominalmente” ancora esistono – danno prova di essersela già bevuta tutta.
Quando Salvini giura – col rosario in mano – sulla Costituzione e sul “Sacro Vangelo”, e i parrocchiani abbandonano la chiesa dal cui pulpito il prete aveva osato metter in dubbio la cristianità dello stesso ministro (perché “I cristiani hanno il dovere di accogliere e portare a casa propria chi bussa in condizioni di difficoltà”), vuol dire che non solo i “compagni”, ma anche gli “amici” non hanno anticorpi ideologici contro la micidiale miscela della “quarta colonna”.
Non è peraltro una novità: già nel 2014 un questionario della Chiesa Cattolica inviato a tutte le diocesi del mondo aveva evidenziato come il vocabolario dei diritti umani universali risulta incomprensibile alla maggioranza dei fedeli, e anzi è visto con sospetto nei Paesi in via di sviluppo.
In queste condizioni rischia di ripetersi la profezia di Gobetti che, nell’anno della morte, prevedeva che il fascismo non sarebbe stato un male passeggero, ma che sarebbe durato vent’anni. D’altro canto a Dugin (e ad altri con lui) ci son voluti oltre due decenni per mettere a punto un mix letale che fa saltare tutte le contraddizioni della sinistra e del mondo cattolico.
Di fronte a questo scenario assai poco rassicurante possiamo però essere ottimisti. L’antidoto c’è. Si tratta, chiaramente, di un tesoro, come tale nascosto. Vi lascio la mappa con cui trovarlo.
Se guarderete attentamente il rosario con cui ha giurato Salvini noterete che non si tratta di una corona qualsiasi. Ad essa mancano tre elementi, tutti mancanti nell’ideologia del populismo post-moderno. A ciò che solo uno di essi rappresenta fa però riferimento la Dichiarazione Universale del 1948, nella stessa parte da cui deriva l’espressione “liberi e uguali”.
In questo elemento sta il tallone d’Achille dei populismi post-moderni, sul quale potrete notare come Dugin stesso si contraddice ed entra in aperta contraddizione con quanto espresso – sul medesimo punto – da Ratzinger ne La Compagnia Sempre Riformanda.
Potrete fare la prova del nove ed essere sicuri di trovarvi sulla strada giusta rileggendo il conflitto fra Marcello Pera e Ratzinger in punto a diritti umani, comprendendo le ragioni per le quali il primo è contrario ai medesimi, mentre il secondo a favore.
La soluzione di questi conflitti ideologici è la chiave per sconfiggere la “quarta colonna”, facendola sgretolare dal di dentro e rivelandone tutta la mancanza di essenza.
Troverete la soluzione rileggendo i testi che – a partire da ciò che manca al rosario di Salvini e che invece è presente nella Dichiarazione – furono scelti da Adriano Olivetti e pubblicati dalle Edizioni di Comunità nei primissimi anni ’50.
Lì vi attendono – già selezionate – le idee che sconfiggono, una a una, le idee su cui si poggia la “quarta colonna” di Dugin, e che parlano di una Russia veramente eterna, che unisce Tolstoj a Berdiaev.
Questi gli ingredienti per l’antidoto. Le dosi le troverete in Jeanne Hersch (nel suo scritto sui diritti umani e in particolare sulla espressione “liberi e uguali”) e in Joannes Morsink.
Una volta prodotto l’antidoto, nei libri di Franco Ferrarotti scoprirete come renderlo politicamente e socialmente operativo in termini di organizzazione e di mobilitazione, attraverso il “tesoro nascosto nei tecnicismi di Adriano”. Buona fortuna.