“Ricostruire” l’impegno antimafia nel nome di Pio La Torre

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Inabissamento, sommersione, capacità di mimetizzarsi: sono queste le caratteristiche che vengono attribuite negli ultimi anni alle mafie, e a Cosa nostra in particolare. Una necessità dovuta alla reazione dello Stato che si è fatta modalità operativa delle strutture criminali. “Caratterizzate – ci segnala l’ultima relazione della Direzione Investigativa Antimafia – da una spiccata elasticità che pur lasciando ferme le strutture classiche offre alla mafia la capacità di adattarsi al tempo presente”.

In questa direzione ne sono segnali il ruolo di supplenza e guida acquisito dalle donne o il turn over che spesso si verifica sul territorio in relazione all’arresto di un capo. Più autonomia per le famiglie e la propensione a de-localizzare al nord e nel mondo. Secondo la DIA, “si disegna, così, la fisionomia di un’organizzazione che, pur continuando a perseguire una metodologia operativa di basso profilo e mimetizzazione, rimane una struttura dotata di vitalità e di una notevole potenzialità offensiva, oltre che ancora diffusamente ramificata sul territorio, dove continua a esercitare ingerenze sugli apparati politico-amministrativi locali”.

La mafia si vede meno – ne sono conferma i dati sugli omicidi o tentati omicidi che nelle ultime rilevazioni del primo semestre 2017 della Polizia di Stato segnano una diminuzione esponenziale. Ma la mafia c’è. Utilizza il racket delle estorsioni e lo spaccio di droga per mantenere un ramificato controllo del territorio. A questa mafia geo-referenziata, specie sui territori del suo storico insediamento, si affianca “una mafia affaristica, che opera in ambienti economico-finanziari, in aree nazionali e internazionali, agendo nel massimo silenzio, per riciclare i capitali illeciti e accaparrarsi risorse pubbliche”. Ecco un elemento decisivo della strategia immersiva, quello cioè di aggredire l’economia legale.

“Negli ultimi anni si è passati (…) dalla mera predazione del territorio basato sulle estorsioni e sul controllo del traffico di stupefacenti al riciclaggio del denaro, sotto forma di creazione di un’imprenditoria mafiosa. Abbiamo, quindi, il mafioso che fa direttamente l’imprenditore e non più il mafioso collegato con l’imprenditore (…) e la tendenza a investire il denaro non più nei tradizionali acquisti immobiliari, ma in forme di attività commerciale, imprenditoriale e così via”. Cosi Guido Lo Forte, audito dalla Commissione Parlamentare Antimafia in relazione alla mafia della provincia di Messina.

Il tentativo di inserimento nell’economia legale racconta della capacità predatoria della mafia. La vicenda, ad esempio, dei contributi per i terreni ricadenti nel Parco dei Nebrodi, ha chiarito come le organizzazioni criminali abbiano tra i loro obiettivi, del resto confermato da altre inchieste, l’accesso fraudolento ai finanziamenti pubblici. Cosi anche tutte le inchieste riguardanti il ciclo dei rifiuti. A ogni intromissione dell’economia criminale in quella legale corrisponde una privazione di risorse economiche, ambientali, sociali allo sviluppo. La mafia arricchendo se stessa impoverisce il territorio.

È attraverso un’ampia “zona grigia” che la mafia trova accesso all’economia legale. “È impressionante la disponibilità degli imprenditori ad entrare in relazioni con i mafiosi pur sapendo con chi hanno a che fare, sulla base di semplici valutazioni di convenienza”. Così sentenzia la commissione antimafia a rappresentare che la porta di ingresso dei mafiosi nella “legalità” attraverso la disponibilità di soggetti che agiscono solo in relazione alla “convenienza”, siano essi imprenditori ma ovviamente anche servitori infedeli dello Stato o politici corrotti. Non sarà un caso l’elevato numero dei comuni sciolti per mafia e il fatto che molti di questi non vadano al voto se non dopo molti anni perché il contesto territoriale rimane “inagibile” alla democrazia.

È la corruzione, la disponibilità alla collusione che apre le porte alle mafie, Questo ci interpella tutti. Ha a che fare con i comportamenti, nostri e di quelli che accadono a noi vicino. Questo è il modus operandi di una mafia che ormai opera ormai stabilmente al nord, come ci dimostrano le numerosissime inchieste che hanno riguardato Lazio, Emilia, Lombardia, e in tanti paese esteri.

Nel Mezzogiorno, le mafie affiancano alle operazioni economiche il controllo del territorio. In tante zone del sud Italia la mafia non è soltanto un’organizzazione criminale organizzata ma anche spesso una mentalità, un modo di essere, una legge contro la legge. Per questo, spesso abbassando i prezzi, la mafia non rinuncia mai alla richiesta del pizzo, nei grandi e nei piccoli centri, perché come si legge nell’ultima relazione della Commissione Nazionale Antimafia, il racket rappresenta “lo strumento primario per il controllo del territorio attraverso il quale l’associazione si manifesta e impone la propria prevalenza sulle leggi dello Stato”. Si deve vedere di meno, ma si deve capire che c’è. La percezione della sua presenza deve chiara e indubitabile. Tremendamente concreta, specie nelle grandi periferie suburbane dove le famiglie e le organizzazioni legate alle mafie tengono in piedi un sistema di welfare efficace e pervasivo.

Nella mia esperienza personale e politica l’affermazione “voi dove siete, loro ci sono” rimane una costante, valida anche oggi e non relegata al passato. Un’espressione che ci interpella proprio nel giorno in cui ricordiamo l’assassinio di Pio La Torre e Rosario Di Salvo. Dentro questo scenario la mafia, colpita, ferita, riesce a rigenerarsi. È presente e interferisce con la vita e la crescita delle comunità e dei cittadini. In questo quadro, più complesso e articolato, diventa centrale il ruolo dell’antimafia politica e civile.

Sono stati anni complessi per il movimento antimafia. Dall’enfasi di partecipazione e attivismo degli anni ’90, dai lenzuoli bianchi di Palermo alla legge sulla confisca dei beni ai mafiosi, la 109 del 96 arrivata in parlamento per oltre un milione di firme di cittadini raccolte da Libera. Oggi è il tempo del caso Montante, dell’antimafia delle parate e delle commemorazioni, di lotte fratricide all’interno del movimento antimafia. Al di là delle responsabilità penali, emergono contraddizioni eclatanti, uso strumentale del termine antimafia per costruire carriere politiche e imprenditoriali. A fronte di questo, l’impegno dell’antimafia civile e sociale è continuato nelle scuole, nelle università, nei terreni confiscati, nelle aziende liberate. Un quadro complesso, una matassa intricata della quale va ripreso immediatamente il bandolo. Deve ritrovare senso e forza l’antimafia politica nei partiti, nei movimenti e nelle istituzioni.

Serve il rigore della ricerca e della conoscenza che caratterizzò l’impegno di Pio La Torre e degli altri parlamentari comunisti nella Prima Commissione Parlamentare Antimafia. Un legame forte con il territorio, fuori da luoghi comuni e sentito dire, che diventa lettura di fenomeni e capacità di costruzione di alleanze. La forza di una analisi accurata e puntuale dalla quale fare discendere strumenti e sistemi normativi per contrastare le mafie sempre al passo con i tempi e con l’evoluzione delle organizzazioni criminali.

In questa prospettiva, ad esempio, occorre superare i limiti del nuovo codice antimafia per dimostrare che è possibile salvare e rilanciare le aziende mafiose, salvando lavoro e diritti. Servono giunte comunali che si tengano lontane dalla zona grigia, che dimostrino che si possono fare le cose senza cedere a ricatti o pressioni. Serve rafforzare controlli e procedure affinché i flussi di finanziamenti per opere pubbliche
siano monitorati con attenzione, per evitare che sui territori si inneschino speculazioni e ingerenze
mafiose. Non credo che serva meno antimafia in politica perché qualcuno ha insozzato questa parola,
ne serve di più, Meno patenti di antimafia e più antimafia praticata. Ma nella lotta alle mafie rimane centrale l’antimafia civile e sociale dei cittadini, delle associazioni e dei sindacati. Non è un caso che i primi morti ammazzati siano stati tanti sindacalisti siciliani. La lotta per i diritti è il primo antidoto alle mafie, il più temuto.

L’antimafia civile, nelle scuole e nella comunità, deve però salvarsi dagli stereotipi, da stanchi rituali. Meno commemorazioni e più memoria, meglio se affiancata ad azioni concrete di denuncia e monitoraggio civico.
Meno sguardo al passato e più occhi per il futuro, stare nelle contraddizioni, denunciarle. Allargare e coinvolgere: stare nel movimento antimafia non è un’adesione formale che si rinnova tacitamente, deve essere una scelta consapevole che si compie quotidianamente. In un periodo in cui vengono messi in discussioni i valori di fondo, e persino il buon senso e l’umanità rischiano di essere espulsi dalle nostre comunità, in nome di un egoismo e un cinismo sempre più becero, che ha un gusto simile a quello della mafia, chi vuole praticare l’antimafia ha una bibbia laica che ci guida nella confusione: la nostra Costituzione Repubblicana che si fonda su due parole – libertà e giustizia – parole sconosciute al linguaggio mafioso. Libertà e giustizia che sono la chiave per un impegno serio e rigoroso.

Domenico Siracusano

Nato a Messina 27 Novembre 1974 militante e dirigente dei Ds e del Partito democratico. Dalla fondazione di Articolo Uno, svolge il ruolo di Coordinatore Provinciale di Messina e, da qualche mese, è Responsabile Organizzazione del movimento in Sicilia. Da sempre impegnato nel mondo dell'associazionismo sui temi della pace, dei diritti umani e della lotta alle mafie.