Veramente si può pensare che la maggioranza assoluta del corpo elettorale veneto e una cospicua quota di elettori lombardi si siano recati alle urne solo per sostenere la trattativa col governo nazionale sulle materie di legislazione concorrente? Se così fosse si confermerebbe solamente l’inutilità di tali consultazioni in quanto un simile iter istituzionale è già previsto dalla Costituzione. E infatti le ripercussioni dei due referendum sull’autonomia si fanno sentire anche molto al di là delle intenzioni dei loro promotori.
I pochi che ancora non hanno rinunciato a una lettura politica degli avvenimenti hanno fatto sommessamente osservare che stante il clima che si è creato in Europa, con le spinte secessioniste rinvigorite nel Regno Unito dopo la Brexit, con il Belgio che conserva un’unità poco più che formale, con la delicata vicenda della Catalogna, di tutto si avvertiva il bisogno fuorché di un protagonismo di due presidenti di regione italiani che pure hanno preso nettamente le distanze da ogni velleità secessionista. Un clima favorevole alla frammentazione in Europa rischia pure di far proseguire indefinitamente e di aggravare l’instabilità in Medio Oriente, se solo si considera che sullo scacchiere internazionale la spinta secessionista della piccola Catalogna – e delle regioni che dovessero scimmiottarla – attualmente vale più come un precedente che può creare, in funzione della costituzione di uno stato Curdo, che per se stessa. Con tutto ciò che una tale eventualità, forse accettabile in linea di principio ma deflagrante nel contesto attuale, comporterebbe sul piano della tenuta dei fragilissimi equilibri raggiunti nella martoriata regione tra Siria e Iraq dai principali protagonisti della politica mondiale dopo anni di guerre ininterrotte.
Proprio a causa della mancanza di un serio e stringente dibattito sui temi della sussidiarietà istituzionale e del rapporto fra i vari livelli di governo, si assiste al trionfo di una propaganda sganciata da ogni logica. Non solo da parte di Maroni e Zaia, con l’uso di questi referendum piegato a logiche dettate dalle loro rispettive prossime campagne elettorali, ma anche di un Berlusconi che converte la trovata nello slogan “più autonomia per tutte le regioni” o di un Renzi che dopo aver enfatizzato l’abolizione delle province si accorge con il suo tour elettorale in treno che non è possibile incontrare, e governare, l’Italia reale, prescindendo dal livello provinciale o di area vasta.
Si sono passati più di vent’anni a disquisire di autonomie senza esser riusciti a far emergere un diverso modello di rapporto fra centro e periferie. L’idea di “capitale reticolare”, che non coinvolge solo il livello nazionale, ma sporge nella direzione di una intelligente dislocazione dei nodi decisionali, resa possibile anche attraverso le nuove tecnologie, pare essersi persa nei meandri della burocrazia.
E soprattutto alcune forze politiche hanno agitato la questione dell’autonomia negli anni in cui il capitale riprendeva con forza la sua supremazia sul lavoro e la finanza privata scippava alle istituzioni democratiche la residua potestà sulle politiche economiche e monetarie, creando così le condizioni ovunque per una generalizzata svalutazione del lavoro e per un aumento delle disuguaglianze a livelli inimmaginabili. Costoro anziché misurarsi con i nuovi equilibri del XXI secolo hanno indicato nella costruzione di nuove piccole patrie la soluzione a problemi epocali.
Ma alla Lombardia e al Veneto non basterà gestire in loco una maggior quota di gettito, se si elude la questione centrale di conoscere quanto delle tasse che si pagano, vada a finanziare i servizi al cittadino, piuttosto che a tappare i buchi dei derivati nella Pubblica Amministrazione, che garantiscono lauti ed ingiustificabili guadagli alle banche d’affari, o a pagare gli interessi di un debito pubblico non più gestito nell’interesse della collettività (anche se sarebbe possibile tornare a farlo, essendo solo questione di volontà politica) ma in quello delle centrali speculative globali, o ancora piuttosto alla spesa militare e per armamenti, in crescita continua a fronte di dolorosi tagli per lo sviluppo e per il welfare.
Nell’intero Paese, e non solo nel nordest, c’è una questione di deflazione da debito che si aggiunge alla deflazione tecnologica prodotta dall’inarrestabile processo di automazione. É questo che fa ristagnare l’economia e diminuire il potere d’acquisto delle famiglie, molto più che gli sprechi e la disorganizzazione, che pure vanno combattuti, tra i livelli istituzionali.
Questi mi paiono fondati motivi per proporre nella ormai imminente prossima legislatura un accordo aperto a tutte le forze politiche per l’istituzione di una Commissione parlamentare di indagine sulla reale destinazione del gettito, per far luce su quanta parte dei soldi dei contribuenti venga distolta dal bene comune andando invece ad alimentare quelle sofisticate, ed ingenti in termini di cifre, forme di sfruttamento, e di furto, escogitate dalla privatizzazione delle politiche economiche e monetarie, cui si è assistito in questi anni.
Sarebbe illusorio attribuire la significativa adesione ai referendum regionali in funzione di insopprimibili istanze autonomiste: essa è stata prioritariamente una forma, che deve far riflettere, di manifestazione di scontento delle classi medie e dei ceti lavoratori, a cui va data una risposta politica convincente, tempestiva e tangibile in una logica di solidarietà e di avanzamento della democrazia. Un compito che non può che vedere la sinistra e le culture politiche riformatrici in prima fila.