Il decreto legge “Disposizioni urgenti in materia di Reddito di cittadinanza e di pensioni” licenziato dal Consiglio dei Ministri il 17 gennaio sarà a breve convertito in legge e quindi è suscettibile di ulteriori modifiche nel passaggio parlamentare. Tuttavia, dopo che in questi mesi sul contenuto del provvedimento è stato detto tutto e il contrario di tutto, è ora possibile esprimere finalmente un giudizio compiuto su questa misura a cui, comprensibilmente, il Movimento 5 stelle attribuisce un’importanza fondamentale, sia per il suo impatto sociale, sia perché il reddito di cittadinanza è stato il principale cavallo di battaglia di questa forza politica nella vittoriosa campagna elettorale che ha portato i 5 stelle al Governo del paese.
Considerazioni preliminari
1) Cominciamo con il dire che una misura di questa complessità e portata, dal carattere chiaramente strutturale, non si addice allo strumento del decreto legge (non vi sono infatti le caratteristiche di urgenza) e che un normale iter parlamentare avrebbe consentito, oltre che un salutare dibattito sulla misura, sicuramente dei miglioramenti del testo.
2) In secondo luogo, va sgomberato immediatamente il campo dalla propaganda e dalla demagogia, ristabilendo la chiarezza sulla natura e sulle finalità della misura: non si tratta di una misura “universalistica”, rivolta quindi alla “cittadinanza” ovvero a tutti i cittadini che sono nella condizione di disoccupazione o per aver perso un precedente lavoro o per non averlo mai avuto, ma di una misura che si rivolge a una platea ben precisa, stimata dall’ISTAT in circa 1 milione e 700mila famiglie al di sotto della soglia di “povertà assoluta” per un totale di circa 5 milioni di italiani tra giovani, adulti, anziani (per gli oltre 65enni la misura assume la denominazione di “pensione di cittadinanza”), maschi, donne e bambini.
3) si tratta quindi di una misura di contrasto alla povertà che si rivolge non ai singoli individui (a meno che i “single” non costituiscano un nucleo familiare a sé stante) ma alle famiglie povere il cui reddito annuo massimo non può superare i 9360 euro/anno elevabile a circa 12mila euro/anno in funzione del numero dei componenti il nucleo familiare.
4) Si tratta quindi di una misura che sostituisce, in un certo senso “inglobandolo” e facendovi riferimento per molti aspetti cruciali, il Rei (reddito di inclusione) varato dal governo Gentiloni e per il quale il precedente Governo aveva investito per la prima annualità circa 2,5 mld di euro mentre il governo attuale per la prima annualità del Rdc investirà circa 6 mld di euro (cui dovrebbero aggiungersi i 2,5 mld a suo tempo previsti per il Rei?), che diventeranno progressivamente 7,8 mld nel 2021 e 7,6 mld a decorrere dal 2022.
Entità del beneficio, modalità di erogazione, “patto per il lavoro” e incentivi alle aziende che assumono
L’entità del beneficio è variabile in funzione della condizione economica del nucleo familiare del richiedente e non può comunque essere superiore a una soglia di 9360 euro annui, indipendentemente dal numero dei membri del nucleo familiare oltre il quinto. Oltre a questa anomalia, che penalizza le famiglie numerose, ve n’è un’altra, altrettanto sorprendente e cioè il fatto che nel sistema di calcolo la presenza di minori nel nucleo familiare “vale” la metà di quelli degli individui adulti, laddove è statisticamente noto che le famiglie in condizione di povertà assoluta sono prevalentemente quelle con maggior numero di figli minori.
Il beneficio, una volta riconosciuto dall’INPS, è erogato per 18 mensilità e può essere rinnovato (previo un mese di sospensione).
La principale critica che è stata rivolta a questa misura, da destra e da sinistra, sin da quando è stata annunciata in campagna elettorale (quando i 5 stelle la presentavano come una misura rivolta alla totalità dei cittadini in condizione di disoccupazione) e ancor prima, è che si trattasse di una misura di stampo “assistenzialistico”, dando a questo termine una connotazione essenzialmente negativa. Insomma, una misura che avrebbe disincentivato i giovani e i meno giovani a cercarsi un lavoro o che addirittura avrebbe incentivato la pratica, già molto diffusa del lavoro nero.
Diciamo subito che questo rischio non sembra sussistere, a meno che non si consideri l’inefficacia potenziale della misura come una forma indiretta di “assistenzialismo”.
Il Rdc infatti, si pone l’obiettivo di aiutare le famiglie povere (ma veramente povere) a uscire dalla loro condizione di indigenza e di esclusione sociale e di accompagnare i membri adulti dei rispettivi nuclei familiari, ad eccezione di coloro i quali dimostrino di essere impegnati nel lavoro di cura di minori di tre anni o persone anziane non autosufficienti o disabili, nella ricerca di un lavoro sino al suo ottenimento.
Tutti i membri adulti del nucleo familiare devono quindi sottoscrivere il “patto per il lavoro” o in alternativa il “patto per l’Inclusione sociale” (ripreso per filo e per segno dal Dl del 15 settembre 2017, n. 147 “Disposizioni per una misura nazionale di contrasto alla povertà” che istituisce il Reddito di inclusione) nel caso di famiglie multiproblematiche, impegnandosi a farsi affiancare dai centri per l’impiego (o in alternativa dalle agenzie private del lavoro) nella ricerca attiva di un lavoro, frequentando corsi di formazione, consultando quotidianamente (sic!) l’apposita piattaforma informatica, partecipando a riunioni con i tutor, presentandosi ai colloqui, il tutto secondo una precisa agenda elaborata dai servizi.
Ogni minima negligenza nel rispetto degli impegni sottoscritti comporta sanzioni pecuniarie (perdita di una o più mensilità del Rdc) sino alla sua revoca. Un regime di controlli che sinceramente ricorda le peggiori declinazioni poliziesche dei sistemi di servizio sociale.
Coerentemente con questi presupposti, ne discende che una volta ricevuta un’offerta di lavoro “congrua”, essa non possa essere rifiutata per più di due volte, pena il decadimento dal beneficio, entro i primi 12 mesi, mentre dopo i primi 12 mesi va accettata la prima offerta “congrua”, pena il decadimento dal beneficio.
Ma come si definisce un’offerta “congrua”? Qui subentra una altra “criticità”.
Un’offerta è definita congrua non solo sulla base di un criterio di “vicinanza” alla residenza del beneficiario (criterio che si “allarga” progressivamente in caso di rifiuto della offerta di lavoro) ma anche sulla base di un parametro economico, come definito all’articolo 25 del Dl 14 settembre 2015, n.150 “Disposizioni per il riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e politiche attive”, secondo il quale è sufficiente che l’offerta di lavoro sia economicamente superiore del 20% a quanto percepito dal beneficiario del Rdc. Ora, se consideriamo che l’importo massimo percepibile da un richiedente è di 780 euro mensili ma, a seconda della condizione economica del nucleo familiare, tale importo può anche essere inferiore alla metà del massimale, ciò significa che il beneficiario del Rdc potrebbe trovarsi costretto ad accettare offerte di lavoro che prevedano una remunerazione anche molto bassa.
Efficacia della misura
Ma l’aspetto forse più carente e problematico del decreto è proprio quello legato all’efficienza dei servizi che dovrebbero affiancare la persona nella ricerca attiva del lavoro. Nel decreto si autorizza ANPAL (Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro) a spendere 250 milioni di euro per assumere nuovo personale per far fronte alla nuova utenza che si riverserà sui Centri per l’impiego. Basteranno?
Oltre che di nuovo personale i Centri hanno necessità di assimilare e rendere effettive le nuove modalità operative già introdotte dalla recente riforma del sistema delle politiche attive per il lavoro e che, ad oggi, non sembrano essere state recepite.
Un altro elemento critico è quello legato alla formazione professionale.
Nel testo del decreto si fa continuo riferimento a percorsi formativi o di riqualificazione professionale cui i beneficiari del Rdc non possono sottrarsi, se previsti nel “patto”. Ma chi finanzia tali percorsi?
Come è noto la formazione professionale è di competenza delle Regioni e sono quindi le Regioni, ovvero gli enti di formazione e in generale tutti gli enti accreditati presso le Regioni, sulla base delle linee guida regionali, a produrre l’offerta formativa. I Centri per l’impiego quindi, per migliorare il “profilo di occupabilità” dei beneficiari del Rdc dovranno rivolgersi all’offerta regionale di formazione professionale, non avendo la possibilità di attivare in proprio dei percorsi formativi non avendo, in primo luogo, le risorse per farlo.
Il decreto invero prevede che gli enti di formazione, in accordo con i Centri per l’impiego o con le Agenzie per il lavoro private, possano stipulare con i beneficiari del Rdc un “patto di formazione”, ricevendone in cambio un contributo pari alla metà della differenza delle mensilità del Rdc percepite dal beneficiario rispetto alle 18 mensilità previste, in caso di assunzione a tempo pieno e indeterminato della persona come conseguenza diretta della frequentazione del corso (mentre l’altra metà di questa differenza andrebbe come incentivo, sotto forma di sgravi contributivi, al datore di lavoro). Ma sembra improbabile che un ente di formazione possa organizzare un corso ad hoc per i beneficiari del Rdc esclusivamente sulla base di questi presupposti.
A quei datori di lavoro che invece dovessero assumere direttamente, ma sole se a tempo pieno e indeterminato, interagendo con i Centri per l’impiego, un beneficiario del Rdc, verrebbe riconosciuta tutta la differenza tra le mensilità riscosse dal beneficiario del Rdc e le 18 mensilità previste (in ogni caso mai meno di 5 mensilità) sotto forma di sgravi fiscali.
Le Agenzie per il lavoro
Nel decreto si dà spazio anche alle Agenzie private per il lavoro (ad oggi le uniche che funzionano), che sono apparentemente messe in una condizione di svantaggio nei confronti dei Centri per l’impiego agli occhi dell’imprenditore. Vediamo come e perché.
Attraverso l’istituto dell’assegno di ricollocazione (l’importo dell’assegno viene riconosciuto non alla persona disoccupata, ma all’ente che fornisce il servizio di assistenza alla ricollocazione e solo se la persona trova lavoro. L’importo varia da un minimo di 250 euro a un massimo di 5.000 euro, a seconda del tipo di contratto alla base del rapporto di lavoro e del grado di difficoltà per ricollocare la persona disoccupata), già previsto dal Dl n.150 del 2015 per determinate categorie di lavoratori, a cui potranno ora accedere anche i beneficiari del Rdc (senza tuttavia che questo fondo sia stato incrementato), si dà la possibilità ai beneficiari di scegliere se farsi seguire dal Centro per l’impiego o da un’Agenzia privata accreditata, ma l’incentivo all’imprenditore che assuma per il tramite delle Agenzie per il lavoro private (sempre e soltanto nel caso in cui l’assunzione sia tempo e pieno e indeterminato), anziché interagendo con il Centro per l’impiego, si riduce della metà, essendo l’altra metà della differenza tra le mensilità del Rdc riscosse dal beneficiario e le 18 mensilità previste, destinata all’Agenzia.
Parimenti appare del tutto improbabile che le Agenzie private vogliano attivarsi per stipulare, come pure si ipotizza nel Decreto, “patti di formazione” a favore dei propri assistiti, coinvolgendo gli enti di formazione, nel momento in cui sanno di dover poi rinunciare al “premio” per eventuali assunzioni a favore dell’ente di formazione.
Insomma, il decreto sembra confidare in una improbabile moltiplicazione dei pani e dei pesci.
E’ chiaro quindi che, solo nel caso di una clamorosa “debacle” dei Centri per l’impiego, che non è purtroppo un’eventualità improbabile, specialmente se si considera che, stando agli impegni assunti dal Governo, il Rdc dovrebbe essere erogato a partire da aprile prossimo, le Agenzie per il lavoro accreditate potrebbero trovare spazio e convenienza per inserirsi come attore indispensabile nel processo di gestione e attuazione del Rdc. In ogni caso, come si diceva prima, il decreto non fa praticamente nulla per incentivare, migliorare, finanziare percorsi formativi ad hoc per i soggetti beneficiari della misura (nonché per tutti coloro che sono alla ricerca di un lavoro e non rientrano nei parametri economici del Rdc!) ma rimanda al quadro normativo esistente in materia di politiche attive del lavoro con impegni finanziari sostanzialmente immutati rispetto agli esercizi di bilancio precedenti.
Conclusioni (provvisorie)
Al netto della propaganda, non si può non considerare positivamente il fatto che il Governo in carica abbia deciso di investire circa il triplo di quanto investito dall’ultimo Governo per contrastare la povertà e l’esclusione sociale.
Questo tuttavia non ha nulla a che vedere con un piano innovativo di moderne ed efficienti politiche attive per il lavoro, che infatti non c’è, né può essere considerato tale il solo previsto incremento del numero di addetti dei Centri per l’impiego. Su tirocini, stage, formazione professionale, borse lavoro, incentivi all’imprenditoria giovanile, modalità operative dei centri per l’impiego, il Governo gialloverde non ha nulla da aggiungere rispetto ai Governi precedenti; nulla dire né da migliorare.
Anche dal punto di vista dell’efficacia “assistenziale”, aggettivo che per chi scrive non è una parolaccia, specialmente quando i destinatari di tali politiche “assistenziali” sono le famiglie povere e/o multiproblematiche, l’impianto del “Reddito di cittadinanza” è opinabile e criticabile, in primo luogo per il carattere fortemente vessatorio e di stampo poliziesco della misura che “colpevolizza” i destinatari e induce un rapporto assolutamente squilibrato tra il personale dei servizi (servizi sociali, centri per l’impiego) e gli utenti, stigmatizzati come “parassiti e indolenti di fatto” che vanno compulsati, piuttosto che aiutati, a cercarsi un lavoro che altrimenti non sarebbero in grado di trovarsi da soli.
E’ quindi sbagliato legare il sussidio economico alla disponibilità del beneficiario ad accettare una offerta di lavoro “congrua”? Cambierei la domanda. A parità di risorse investite, non sarebbe forse più efficace finanziare periodi e percorsi di formazione lavoro, presso aziende accuratamente selezionate di vari settori, promossi da una pluralità di soggetti, pubblici e privati (Centri per l’impiego, enti di formazione, cooperative sociali, ecc.), offrendo a cittadini disoccupati (migranti inclusi), opportunamente “orientati”sulla base delle loro attitudini e capacità, la possibilità di effettuare un tirocinio o una serie di stage presso più aziende, beneficiando di una borsa lavoro a carico dello Stato durante tale periodo di formazione, senza alcun onere economico per le imprese, che avrebbero così la possibilità di verificare, in tempi congrui, attitudini e capacità della persona, di cominciare a formarla e quindi, eventualmente, al termine del percorso, assumerla?