“Giorni di festa ma non per tutti. L’illusione del commercio senza limiti”

Lavoro

Enrico Rossi, Huffingtonpost.it

Anche quest’anno in tante città del nostro paese abbiamo trovato nei giorni di Pasqua e Pasquetta centri e attività commerciali aperti. Accadrà anche il 25 Aprile, festa della Liberazione, e il Primo Maggio, festa dei lavoratori. La stessa cosa succederà ogni volta che il calendario segnerà domenica o una qualsiasi altra festività.
Accade con particolare intensità dal 2012. Il decreto Salva Italia voluto da Mario Monti introdusse la liberalizzazione totale degli orari di apertura. 24 ore al giorno e 365 giorni all’anno.

La questione delle aperture estive è uno dei simboli più evidenti della ripresa dello sfruttamento dei lavoratori. È giunto il momento che la politica prenda rapidamente posizione. Per prima cosa esprimendo massimo sostegno e solidarietà ai dipendenti dell’outlet Village di Alessandria, il più grande d’Italia, dove sindacati e lavoratori hanno deciso di scioperare proprio nei giorni di festa. Il tema non tocca solo un punto di principio, quello sancito dall’art. 36 della Costituzione: «[…] Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi», e non riguarda solo il predominio del consumismo anche nel tempo libero. Problema già di per sé grave e inquietante.

Anche l’esperienza dimostra che la liberalizzazione del commercio non è una buona risposta alla crisi e alla crescita. Anzitutto è stata una batosta per i piccoli esercizi commerciali e non è servita alla grande distribuzione. Non ci sono infatti dati univoci sui benefici ai fatturati derivati dalle aperture festive.
Su due punti però questa liberalizzazione ha avuto degli effetti regressivi. Per l’organizzazione del lavoro e per i diritti dei lavoratori. Parla l’esperienza e ci descrive la piaga del ricorso a personale esterno nelle più svariate forme contrattuali e con tutele ridotte (a partire dalle norme sulla sicurezza). La liberalizzazione dell’orario di lavoro ha accresciuto precarietà e disintermediazione. Lavoratori e lavoratrici sempre più soli e in tanti casi in conflitto con altri lavoratori: i dipendenti diretti delle grandi catene considerati “privilegiati”.

Una fragilità sociale crescente e invisibile perché senza rappresentanza e che messa insieme alla marea montante di chi finisce per lavorare nel mondo della gig economy – sopratutto nelle grandi città – (vedi Foodora o Deliveroo) ci offre una quadro chiaro del degrado attuale della cultura del lavoro. In questa deriva assieme a livelli minimi di protezione e sicurezza svaniscono dignità e diritti acquisiti.
Nei mesi successivi all’entrata in vigore del Salva Italia, come Regione Toscana, provammo ad alzare degli argini. Ma la Corte Costituzionale alla fine del 2012 e successivamente nel 2014 dichiarò l’illegittimità costituzionale delle nostre norme, ribadendo la competenza statale sulla materia.
Non eravamo stati i soli. Anche altre Regioni si erano mosse in quel senso, ma il responso della Corte fu identico. Di recente ci ha provato il Friuli Venezia Giulia con una legge regionale che prevede la chiusura obbligatoria in occasione di dieci festività durante l’anno. La legge è in attesa del giudizio della Consulta.
E’ evidente non possiamo lasciare ai giudici anche questa vicenda. Tocca alla politica e al sindacato.

Sulla deregolazione del lavoro i democratici e progressisti di Articolo Uno dovranno fare un grande sforzo e produrre una grande battaglia politica nei territori, nei luoghi del commercio e in Parlamento, dove occorre impegnarsi subito per l’approvazione di una legge che ripristini elementi di ragionevolezza e buon senso. Le nuove leve dello sfruttamento oggi si mascherano troppo spesso di messaggi ingannevoli e di narcisismo. Le nuove opportunità di consumo appaiono occasioni allettanti per gli individui, ma in assenza di rappresentanza e di conflitti – che tocca anzitutto alla politica e al sindacato generare – sono striscianti processi di sfruttamento reale dei lavoratori.