Sorridono tra loro. La foto più celebre, icona della lotta alla mafia, ritrae Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nel sussurrarsi qualcosa di divertente. E’ un’espressiva immagine che nel 2017 ha compiuto “25 anni di vita” come dice il suo autore, il fotografo Tony Gentile, quel giorno inviato dal Giornale di Sicilia a documentare un dibattito su mafia e politica.
Quella posa ha avuto la diffusione delle foto storiche. Come il “Che” ritratto da Alberto Korda, è diventata simbolo, spostandosi su ogni supporto, stencil, t-shirt, poster, copertine e poi sculture, street art, drappi, persino francobolli. E’ diventata linguaggio. Linguaggio pubblico. Non molte immagini accedono a questo livello comunitario, arrivando a condensare – per usare una definizione di Roland Barthes – “il prodotto di una società e una storia”. Secondo lo studioso francese, a riuscirci sono quelle singole foto capaci di “definire una generalità”. Ed è stato forse il dolore sottinteso a quest’immagine, il ricordo di una violenza inaudita, a impedirci finora di ricercare le ragioni “generali” di questa fotografia. Quelle che l’hanno trasformata in uno snodo collettivo. Che cosa racconta che le altre non dicano? Che cosa racchiude?
Sorridono, ma tra loro. In questa foto si coglie un momento di complicità, certo, ma allo stesso tempo Falcone e Borsellino si raccolgono, si appartano, si sottraggono all’ascolto sociale. E l’immagine diventa simbolo proprio perché, oltre a mostrarli, allude al loro rapporto con il mondo intorno. Al loro isolamento.
Questa foto insomma ha immortalato un’enclave nella Sicilia di allora, un sodalizio nel mezzo di ciò che Falcone definì “l’ambiente siciliano, l’atmosfera globale” che priva di sostegno le sue future vittime. L’immagine di due magistrati che si parlano all’orecchio comunica l’assenza di socialità, la solitudine della loro lotta, l’accerchiamento al quale furono sottoposti. Questo e non altro ha reso la foto di Tony Gentile un’icona antimafia. Il loro sorriso è dolce, ma la loro postura è amara.
Quando in Sicilia le foto diventano simboli di comunicazione sono anche altrettanti racconti di un territorio da conquistare alla legalità, di uno spazio che minaccia oppure abbraccia. Terra di grandi fotografi non per caso, terra di immagini potenti. In fondo, come nota lo storico Nino Blando, è l’unica regione nella quale uno scatto fotografico sia costato le dimissioni al suo presidente. Quelle di Cuffaro, il quale – condannato nel 2008 in primo grado a cinque anni per rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento semplice ma non, come temuto, di tipo mafioso – fu fotografato “mentre teneva in mano un’enorme vassoio carico di cannoli siciliani di fronte a giornalisti e amici che, come sempre, lo andavano a omaggiare”. Festeggiava. Coram populo, “quasi incurante del severo giudizio del Tribunale di Palermo”.
La foto fece il giro del mondo, suscitando una reazione tale da costringerlo una settimana dopo a dimettersi. E non raccontava, quest’immagine, al contrario dell’altra, la stupefacente, scandalosa, socialità di quell’uomo politico? Il suo sguardo era alto, rivolto alla gente intorno, al festeggiamento da cui era circondato. In ben altra postura che non riverso in un’intima confessione.
E’ anche sul piano dei simboli che si gioca la lotta alla mafia. Perché i simboli sono logos, parlano in pubblico e la mafia tende invece al silenzio, a essere “invisibile”, come recita il libro del 2001 di Piero Grasso e Saverio Lodato. E’ stato osservato, in effetti, come in occasione delle elezioni siciliane l’argomento sia pressoché scomparso: “Tranne Claudio Fava che l’antimafia se la porta tragicamente stampata sul nome – ha scritto La Licata – nessun candidato osa abbracciare il tema”.
Vedremo se, venticinque anni dopo, la Sicilia è pronta per condensarsi in immagini nuove. E se avremo occhi per riconoscerle.