Nelle scorse settimane Roberto Speranza ha richiamato l’attenzione sul conflitto israeliano-palestinese, riproponendo da un lato la soluzione “due popoli, due stati”, dall’altro chiedendo che l’Italia dia un più significativo contributo agli sforzi internazionali volti a percorrere la “strada della Pace”. Si tratta, a mio avviso, di due temi collegati ma distinti. Io vorrei guardare al secondo, riformulandolo con una domanda: quale Pace può offrire l’Italia a Gerusalemme?
Una risposta pragmatica che si possa concretizzare in un’iniziativa definita e chiaramente implementabile richiede due constatazioni. La prima è che la Città Vecchia di Gerusalemme fa parte dei Siti iscritti nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità. La seconda è che la gestione dei conflitti (per fortuna, generalmente non armati) fra diversi portatori d’interesse è una problematica che tocca tutti i Siti UNESCO. Se pensiamo a Venezia, è chiaro che, fra gli altri, è in atto un conflitto fra gli abitanti (interessati ad una città non troppo congestionata, a spazi e servizi a misura di residente eccetera) e coloro che invece hanno interesse alla crescita delle presenze (i turisti, ma anche albergatori, agenzia di viaggi eccetera). Un altro esempio potrebbe essere il Paesaggio vitivinicolo di Langhe-Roero e Monferrato, dove il conflitto è emerso fra le forze produttive (che volevano garantita la possibilità di mantenere o allargare i propri capannoni) e l’interesse al paesaggio di cui si sono fatti portatori varie associazioni e amministrazioni locali.
Dove il patrimonio è vivo esso è sempre in un qualche conflitto. Guardando a Gerusalemme da questo punto di vista importa riconoscere che la Città Vecchia ospita una gamma di conflitti che comprende e supera la dimensione politico-internazionale. Basta pensare alla Basilica del Santo Sepolcro. L’unica chiave del complesso è da secoli conservata da una famiglia di custodi musulmani perché le diverse chiese che vi sono ospitate hanno un tasso di conflittualità cristianamente scandaloso: basti ricordare che per mettersi tutti d’accordo su di un restauro conservativo ci sono voluti più di due secoli. Il conflitto non riguarda solo i religiosi (per cui “basta la semplice sosta di un religioso ‘dove non è di sua competenza’ per scatenare lo scontro fisico”), ma tutti i visitatori. Ne sono stato personalmente testimone due anni fa quando, in visita turistica con il mio programma di dottorato, un mio collega è stato malamente invitato ad uscire (da rappresentanti della Chiesa Armena) per l’unica ragione che portava in testa una kippah.
Per tutti i Siti UNESCO la chiave per superare i conflitti, garantendo che il sito sia adeguatamente protetto e gestito nell’interesse di tutti, sono i Piani di Gestione. Quando cioè viene presentata una candidatura alla Lista del Patrimonio Mondiale, questa deve includere due documenti. Da un lato un Dossier (che descrive il sito e spiega le ragioni per le quali si chiede che se ne riconosca l’ “eccezionale valore universale”); dall’altro un Piano di Gestione (ovvero l’individuazione di un accordo fra i soggetti pubblici e privati rilevanti rispetto al bene). I Piani di Gestione – che dovrebbero essere costantemente aggiornati – includono anche la definizione di una Struttura di Gestione, ovvero un accordo fra tutti i portatori d’interesse su come operare in modo coordinato e cooperativo nell’interesse del Sito. La logica dietro questo sistema è che ciascun bene culturale è patrimonio per diverse comunità e gruppi d’interesse; e per questo la gestione migliore è quella che passa dall’inclusione e dalla partecipazione di tutti, siano essi abitanti o venditori di souvenir, pellegrini e clero (come a Gerusalemme) o escursionisti e braccianti agricoli (come nel caso di Langhe-Roero e Monferrato).
Molto spesso però le Strutture di Gestione sono state disegnate in modo approssimativo, o non sono state mai aggiornate. Per questo spesso non includono tutti i potatori d’interesse, tendendo a ridursi in cabine di regia fra pochi soggetti pubblici (con pochi poteri e ancor meno risorse). Rivedere le Strutture di Gestione dei Siti UNESCO in chiave partecipativa non è però semplice, perché spesso non se ne capisce l’importanza e sovente mancano le competenze tecniche per prevedere meccanismi inclusivi che sappiano gestire i conflitti che emergono dalla partecipazione, prevenendoli o risolvendoli come opportuni metodi deliberativi o consultivi.
Questo è vero per molti Siti UNESCO in Italia, e anche per la Città Vecchia di Gerusalemme. Parlare di UNESCO in Israele – va detto – non è semplice; ciò anche perché in alcune occasioni organismi interni all’Organizzazione hanno assunto iniziative anche politicamente partigiane che, nelle parole dell’Ufficio del Segretario Generale dell’UNESCO – Irina Bokova, “non servono gli interessi della pace e fomentano violenza e radicalismo”. L’UNESCO e i Siti del Patrimonio Mondiale sono però cosea collegate, ma distinte. Il professor Michael Turner, dell’Università Ebraica di Gerusalemme, è stato per anni apprezzatissimo membro e poi Vice-Presidente del Comitato per il Patrimonio Mondiale. Negli ultimi vent’anni lo Stato d’Israele ha molto investito in candidature al Patrimonio Mondiale, con risultati anche di sviluppo locale molto significativi. Si pensi ad esempio a tutta la promozione legata all’architettura Bauhaus di Tel-Aviv – Sito UNESCO dal 2003.
Interesse ed impegno sul fronte dei Siti UNESCO hanno peraltro caratterizzato anche l’Autorità Nazionale Palestinese; che ha tre Siti iscritti e tredici candidati. Per queste ragioni, verificare l’opportunità politica di un’azione volta a creare uno scambio internazionale di esperienze e di migliori pratiche su come gestire i Siti UNESCO in modo sostenibile ed inclusivo mi sembrerebbe ragionevole e non impossibile in forme che coinvolgano anche la Città Vecchia di Gerualemme. L’Italia avrebbe dalla sua che è il paese con il più elevato numero di Siti UNESCO e dunque con la maggiore esperienza nella gestione – mai banale – di questi Siti. Il nostro Paese è poi il primo ad aver messo in cantiere la creazione di un Osservatorio nazionale dei Siti Italiani UNESCO. Da questo punto di vista una cooperazione con altri paesi sarebbe anche un’occasione per rilanciare l’attività di questo Osservatorio ed il lavoro di mappatura e verifica dei sistemi di gestione attualmente utilizzati in Italia.
Da ultimo bisogna ricordare che nel 2016 è stato anche siglato un accordo (in occasione della firma del Memorandum sui cosiddetti Caschi Blu della Cultura) fra l’UNESCO e la Città di Torino per la creazione del primo Centro UNESCO di ricerca e formazione sull’Economia della Cultura e il Patrimonio Mondiale. Si tratta di una rete internazionale di esperti di primissimo profilo che già si occupano specificamente di Siti UNESCO, una rete che dunque potrebbe tanto facilitare una cooperazione scientifica, quanto permettere che un contributo alla gestione sostenibile della Città Vecchia di Gerusalemme possa essere solo la prima di una serie di simili azioni di diplomazia culturale. I Siti UNESCO sono infatti oltre mille nel mondo, e rappresentano solo la punta dell’iceberg del patrimonio culturale di ciascuna nazione. Si può fare tanto per meglio proteggerli e valorizzarli in Italia, e si potrà dunque condividere tanto in termini di qualità e quantità delle esperienze maturate nel nostro Paese.
Dopotutto – come affermato anche dal Papa e sostenuto dalla tradizione talmudica – “la Pace inizia da casa”. E se la cultura è patrimonio comune (casa comune), allora iniziare a fare la Pace a partire dal patrimonio culturale potrebbe essere un modo concreto per fare del nostro patrimonio nazionale uno strumento di sviluppo inclusivo per i nostri territori, per poi offrire questa esperienza come occasione di costruzione ponti di scambio e cooperazione con e tra altri popoli e altre culture. Magari, perché no, partendo proprio da Gerusalemme.