Possiamo trarre un bilancio della riforma Franceschini e provare a delineare, in controluce, alcune proposte per i beni culturali del nostro Paese?
La precondizione è riconoscere che l’errore più grave compiuto dalla riforma risiede nella separazione dei due momenti della tutela e della valorizzazione, con la creazione di una gerarchia insopportabile che antepone la valorizzazione (assolutizzando l’obiettivo di aumentare gli introiti e massimizzare i profitti) e svaluta la tutela. Del resto Franceschini, se vogliamo essere onesti, non ha l’esclusiva delle responsabilità: ha semmai portato a compimento un ritornello intonato dalla politica italiana da diversi decenni secondo cui la tutela e la gestione del patrimonio culturale andavano separati. Non occorre scomodare Settis, che ormai vent’anni fa insisteva sul fatto che «tutela e gestione non si possono separare: sono due momenti intimamente connessi di un processo unico». È sufficiente ricordare che ancora il Codice dei beni culturali nel 2004 garantiva esplicitamente questa relazione. Che con la riforma Franceschini, invece, viene spezzata in nome dell’assoluto predominio della commercializzazione e del marketing culturale. Ma qual è l’oggetto della commercializzazione? Chi fa introiti? Soltanto quella piccola minoranza di super-musei che viene completamente sradicata dal sistema culturale generale.
In questo senso abbiamo due scissioni, non una: la prima è tra musei nazionali e patrimonio artistico del territorio e la seconda è tra musei di serie A (le venti grandi istituzioni dagli Uffizi a Capodimonte, da Brera all’Accademia di Venezia) e i musei di serie B (i tanti musei nazionali delle città di provincia). Basta leggere i risultati della ricerca dell’Istat di metà gennaio per capire come è composto il nostro patrimonio culturale, qual è la sua natura peculiare. Il nostro Paese gode di un altissimo numero di istituti della cultura, 4.889 tra musei pubblici e privati, parchi archeologici, monumenti e complessi monumentali, distribuiti su 2.371 comuni. Questo vuol dire che in almeno un comune su tre esiste una struttura museale, una ogni cento chilometri quadrati, una ogni dodicimila abitanti. L’80% dei 4900 musei italiani non arriva a contare un afflusso di 10.000 visitatori all’anno. Questa è la realtà italiana, che andrebbe tutelata, valorizzata, posta al centro di un progetto di cura e di riforma. E invece i soldi, gli investimenti, i pochi investimenti che si fanno, sono diretti alla ristretta cerchia di grandi musei, lasciando le briciole a questa grande rete di presidi culturali periferici.
Sul punto occorre poi essere precisi: l’allora ministro Franceschini, per rispondere a queste e altre obiezioni, sostenne più volte che grazie alla riforma gli introiti erano cresciuti. Segnalo che questi aumenti sono in linea con l’aumento dei flussi turistici relativi allo stesso periodo. Ma, a monte, va contestata l’idea che si possa giudicare una riforma dell’architettura istituzionale del sistema culturale dai ricavi e non dagli investimenti. In questa classifica l’Italia è terzultima in Europa, con lo 0,29% del Pil, davanti solo e Irlanda e Romania. Prima di ogni altra cosa occorrerebbe alzare questa percentuale alle media europea. Poi si può iniziare a discutere.
Infine c’è l’altro versante della questione, cioè la tutela, che è lasciata a soprintendenze pesantemente indebolite, sottomesse grazie alla legge Madia a un organo di governo locale come la Prefettura.
Il combinato disposto dell’attribuzione delle funzioni superiori al Prefetto, organo governativo, e della prevalenza del parere prefettizio (quindi politico) sul parere tecnico rischia di cancellare la terzietà della pubblica amministrazione garantita dalla Costituzione, perdendo anche l’ultima garanzia di imparzialità nell’esercizio della tutela.
È difficile non vedere in questo l’eco di un’antica avversione contro le Sovrintendenze, la voce più forte che a livello istituzionale si è opposta nel corso dei decenni agli interessi speculativi e privati di grandi gruppi economici e industriali.
Abbiamo ora a che fare con sovrintendenze miste in cui l’unificazione delle tre competenze della tutela (archeologi, storici dell’arte e architetti) in un unico istituto ha portato a generali problemi di legittimità degli atti amministrativi. L’indagine che Assotecnici ha condotto tra i funzionari MiBACT ha messo in evidenza come questo abbia prodotto un calo del 53% delle pratiche di tutela generale tra il primo ed il secondo semestre 2017, con un corollario inaccettabile che riguarda l’occupazione: nel settore non lavorano infatti soltanto i direttori o i funzionari, ma più di diecimila liberi professionisti che vivono del lavoro delle procedure di tutela. Il crollo delle procedure crea evidenti conseguenze per migliaia di professionisti difficilmente ricollocabili.
Ecco, di conseguenza, tre proposte.
La prima riguarda il lavoro: siamo tra quelli che ritengono che la nostra Costituzione abbia un valore prescrittivo irrinunciabile: vogliamo vivere in una Repubblica fondata sul lavoro. E il lavoro nei beni culturali per noi è la massima priorità. Anche qui, basterebbe leggere i dati Istat. I 4.889 istituti museali italiani impiegano 38.338 lavoratori, a fronte di 10.975 volontari e di 1.378 operatori del Servizio Civile Nazionale. Contemporaneamente, l’organico stabile del MiBACT si è ridotto di circa cinquemila unità in cinque anni e il grande concorso dei 500 funzionari non è riuscito neppure a coprire i pensionamenti. Per questo motivo avvertiamo la necessità di un nuovo piano d’assunzioni di funzionari, tecnici, addetti alle sale che possano far fronte a questa strutturale carenza di personale. E pensiamo vada rivista la legge Ronchey sulle esternalizzazioni: è impensabile credere di far fronte al problema del sottodimensionamento dell’organico con uno scriteriato ricorso al volontariato che abbassa la qualità del lavoro e crea una sorta di concorrenza sleale tra i lavoratori. Il lavoro è lavoro: va pagato e va qualificato con tutele e diritti uguali per tutti.
La seconda riguarda la necessità di dare nuovo slancio alla tutela, rinsaldando i legami tra musei e territorio. Si apra una discussione. Penso che occorra eliminare i poli museali, riattribuendo i musei e le strutture locali alle Soprintendenze locali.
Allo stesso tempo, non penso sia un’eresia pensare di ripristinare le soprintendenze specialistiche di settore. Si può e si deve discutere: quel che è certo è che l’obiettivo deve essere riconciliare tutela e valorizzazione. Si può farlo con le soprintendenze olistiche? Ho dubbi. Certamente non così.
La terza è un corollario della seconda: bisogna tornare a occuparsi dei piccoli musei, che registrano cali significativi di visitatori. L’autonomia dei principali musei ha distratto fondi che prima arrivavano ai musei periferici. Proponiamo che il fondo di solidarietà, allo scopo di raggiungere un punto d’equilibrio tra introiti e numero di visitatori, sia alzato dal 20% al 30%.
E infine una proposta semplicissima: che i musei facciano i musei. E non le location di matrimoni, balli in maschera, presentazioni aziendali, sfilate di moda. La cultura, lo ripetiamo, è innanzitutto una cosa seria.