L’entrata in vigore delle nuove disposizioni in materia di prescrizione del reato contenute nella Legge numero 3 del 2019 (mediaticamente nota come “spazza-corrotti”) ha innescato un acceso dibattito che coinvolge operatori del diritto e forze politiche di maggioranza e opposizione, dibattito alimentato dalle considerazioni critiche di quanti ravvisano nell’inoperatività della prescrizione dopo la sentenza di primo grado un vulnus atto ad alterare irreversibilmente gli equilibri del processo penale. Un dibattito, quello sulle norme di nuova introduzione, condito da accenti polemici spesso generati da mere esigenze di parte, che impediscono di ravvisare i punti di forza e le altrettanto evidenti criticità cristallizzabili in tre semplici considerazioni, ispirate dalla lettura delle disposizioni in analisi.
La prima: contrariamente a quanto affermato da alcuni commentatori, la prescrizione non rappresenta un istituto a tutela dell’imputato innocente, ma una vicenda estintiva del reato il cui intervento impedisce al giudice di pronunciare nel merito del fatto. Consegue a quanto appena affermato che l’imputato consapevole della propria innocenza ha interesse non a consegnare il processo all’oblio del non doversi procedere, ma ad ottenere una sentenza che, prendendo posizione sul fatto, ne disponga l’assoluzione: un interesse, per certi versi antitetico a quello che la prescrizione tende a realizzare.
La seconda: concepita come un principio di civiltà giuridica volto a impedire che un soggetto venga chiamato a rispondere per un fatto di reato molto tempo dopo la sua consumazione, la prescrizione si è rivelata, anche a causa della farraginosità della macchina processuale, un “buco nero” capace di inghiottire processi già decisi in primo grado e talvolta anche in grado di appello, vanificando la relativa attività istruttoria e dibattimentale anche quando essa ha portato (come nella celebre vicenda del senatore Andreotti) all’accertamento della responsabilità dell’imputato nell’ambito del giudizio di merito. Alla norma che impedisce l’intervento della prescrizione dopo il giudizio di primo grado può essere ricollegata un’innegabile funzione deflativa rispetto alle appena richiamate farraginosità della macchina processuale, orientando verso i riti alternativi quegli imputati che, non potendo più contare sul “fattore tempo” per difendersi “dal” processo, perdono interesse ad affrontare la fase dibattimentale.
La terza: “l’ergastolo processuale” – nei termini (prospettati dagli oppositori della riforma) della possibilità per il cittadino di essere perseguito per un fatto verificatosi decenni prima, o di trovarsi sistematicamente invischiato in un processo infinito – di fatto non esiste, giacché le norme di nuova approvazione non permettono né la perseguibilità di un fatto lontano nel tempo, né precludono l’intervento della prescrizione nel corso del giudizio di primo grado. Ravvisandosi gli elementi costitutivi della prescrizione nel decorrere del tempo e nel corrispondente affievolirsi della pretesa punitiva da parte dello Stato, la nuova disposizione mantiene una sua intrinseca con i principi-cardine dell’istituto quando si ragiona in termini di sentenza di condanna: in queste ipotesi, lo Stato ha provveduto entro i termini previsti dalla legge ad accertare la responsabilità dell’imputato; e se l’imputato sceglie di accedere agli ulteriori gradi di giudizio impugnando la sentenza, logica vuole che egli non possa avvalersi della prescrizione per difendersi da un processo che lui stesso ha deciso di tenere in vita.
Poco conferenti, in questo senso, risultano i richiami alla presunzione di innocenza prevista dall’articolo 27 della Carta Fondamentale, dato che l’inoperatività della prescrizione nei gradi di giudizio successivi al primo non determinano in alcun modo una anticipazione degli effetti che la condanna è destinata a produrre col passaggio della sentenza in giudicato.
Venendo alle criticità, il discorso sviluppato in base all’ultima delle riflessioni proposte muta radicalmente nel momento in cui la sentenza di primo grado si traduce in una pronuncia di assoluzione, e il processo prosegue in ragione dell’impugnazione proposta dal PM: nel qual caso, una modifica della norma che rende inoperante la prescrizione sembrerebbe quantomai auspicabile, giacché evidenti ragioni di giustizia sostanziale suggeriscono di non tenere l’imputato vincolato senza limiti di tempo a un processo relativo a fatti rispetto a cui è stato dichiarato estraneo, e destinato a proseguire per volontà del pubblico accusatore.
Infine, sembrano cogliere nel segno quegli orientamenti che palesano la necessità di collocare l’intervento sulla prescrizione nell’ambito di una più ampia riforma dell’intero sistema orientata ad assicurare l’attuazione del principio costituzionale della ragionevole durata del processo: una riforma imperniata sulla depenalizzazione dei minori che conducono i tribunali al collasso e su una altrettanto incisiva revisione degli organici, da attuarsi attraverso l’assunzione di nuovi magistrati e di nuovo personale a supporto. Le nuove norme in tema di prescrizione risultano infatti l’ennesimo prodotto generato dalla tendenza del legislatore a rifuggire le riforme di ampio respiro per concentrarsi su misure isolate e a costo zero, destinate a risultare difficilmente compatibili col sistema nel quale vengono calate, e ad esporsi di conseguenza alla sopra descritta sequenza di accenti polemici ispirati da mere esigenze di parte, che ne rendono difficilmente percepibili criticità e punti di forza.