Si fa presto a dire populismo. Ma siamo certi di sapere di che cosa si tratta? Alla domanda cerca di dare una risposta l’ultimo libro di Marco Revelli, Populismo 2.0 (Torino, Einaudi, 2017). Professore di Scienza della Politica all’Università del Piemonte Orientale, rappresentativo, nel panorama della cultura italiana, di un pensiero critico dal peculiare accento torinese, Revelli considera il populismo a catch-all word, una parola “pigliatutto”, al punto che sarebbe più opportuno parlare di “populismi al plurale”. Un fenomeno non estraneo alla democrazia, anzi una delle sue espressioni possibili. “Democrazia e Populismo – spiega Revelli – hanno la radice in comune. Demos in greco e populus in latino rinviano allo stesso soggetto: il popolo” (p. 3). Termine da non confondere con l’“oclocrazia”, il “governo della plebe”: “come Polibio chiamò la degenerazione della democrazia” (p. 8).
Nell’accentuarsi delle spinte populistiche Revelli intravede una “crisi della democrazia rappresentativa”, qualcosa che non necessariamente coinvolge i più svantaggiati, ma quella parte della società che ha goduto di benefici e ora, nel mondo globalizzato, teme di perdere posizioni. Il populismo 2.0, uno “stato d’animo”, un mood che si determina nella “dissoluzione di quello che un tempo fu ‘la sinistra’ e la sua capacità di articolare la protesta in proposta di mutamento” (p. 10). Ma anche un effetto dell’acuirsi delle diseguaglianze: “8 (otto!) super ricchi possiedono l’equivalente delle risorse di metà dell’umanità” (p. 153).
A causa di un impressionante spostamento di risorse dal lavoro al capitale: “tra gli otto e i dieci punti percentuali di Pil”: “che per l’Italia equivale a circa 120 miliardi di euro annui” (p. 150). Forma ideologica, il liberismo, nelle sue diverse accezioni. Ciò produce i “perdenti della new economy” (p. 154), destinati a diventare i nuovi “homeless della politica” (p. 153). Ecco: “La casella delle politiche egualitarie è, nella maggior parte dei Paesi, vuota. E accade allora che l’esercito dei perdenti si affidi a un vincente, quello che trovano, purché capace di dar voce alla loro rabbia e offrire un’immagine di diversità” (p. 154).
Il libro di Revelli offre una cronaca documentata del fenomeno, dall’exploit berlusconiano del 1994 al trumpismo, passando per la Brexit. Situazioni, evidentemente, una diversa dall’altra, ma unite nel tentativo di determinare una rottura della intermediazione democratica, al fine di rivolgersi al popolo in quanto tale, ponendo, al di sopra di esso, “un’élite usurpatrice, una congrega di privilegiati, un potere occulto”, oppure, al di sotto, “gli immigrati, gli stranieri, le comunità nomadi…” (p. 13).
Revelli evidenzia anche come, in genere, il sistema dell’informazione, di fronte al manifestarsi del populismo, appaia, ogni volta, come colto di sopresa; e propone una rassegna, di prima mano, delle reazioni. Poi lo sguardo del sociologo, attento alla statistica, si rivolge alla mappatura del voto, scrutando il disporsi degli orientamenti elettorali in relazione alla temperatura del disagio.
23 giugno 2016, la Brexit: “il Remain fermo al 48,1% e il Leave vincente al 51,9%”. Un’immagine-simbolo: la “sequenza video – non più di una trentina di secondi – mandata in onda dalla Bbc il 24 giugno”, nella quale si “mostrava un tipico rappresentante della english working class, cinquantenne, camicia a scacchi, capelli grigi, stomaco prominente, il caschetto giallo in testa, addosso il giubbotto fosforescente, in una tipica strada del centro di Londra, ai piedi di un possente grattacielo in vetro e acciaio, mentre alza gli occhi al cielo, verso la cuspide della torre, e spiega al cronista che ‘quelli lassù hanno votato Remain, noi quaggiù Leave’” (p. 74).
8 novembre 2016, pochi mesi più tardi, a conferma del delinearsi di un nuovo asse atlantico, lo shock di Donald Trump, l’uomo bianco, miliardario, bellicista, cultore delle armi, tra turpiloquo, wrestling aggressivo e uso compulsivo di Twitter, dopo il primo presidente afroamericano, premio Nobel per la pace nel 2009, in netta opposizione all’ipotesi della prima donna a capo dell’amministrazione Usa. Dice Revelli: le “sei ore che sconvolsero il mondo” (p. 39). Presumendo di poter “guardare la superficie tranquilla di un lago invece vi abbiamo visto emergere l’immagine sconvolgente del mostro di Loch Ness” (p. 39). “Era come se – così commenterà il “New York Times” – “un asteroide avesse colpito”, studio dopo studio, l’intero sistema televisivo…” (p. 40). Trump rappresenta, plasticamente, quel che sale dalle viscere di una società pronta a impallinare tutto ciò che si muove dalle parti di ciò che si presume sia l’establishment. Una bomba di rabbia e rancore, fondata sul timore verso il futuro, che invoca più sicurezze e più tutele. Qualcosa che non riguarda solo gli Usa, ma che definisce una nuova internazionale antisistema che arriva sino al cuore di un’Europa in affanno. Un fuck you contro ogni politically correct, volutamente trash contro ogni forma di ragionevolezza politica, compresa quella della destra repubblicana. Segue un’interessante analisi del voto come se Revelli dispiegasse davanti ai nostri occhi una cartina geografica mostrandoci come orientamento del voto e composizione sociale facciano una sola cosa con la territorializzazione del disagio. Sono dati, per certi versi, inediti. Trump, osserva Revelli, “si è aggiudicato – fatto di per sé clamoroso – ben 2623 contee delle 3142 in palio (un record assoluto) mentre alla Clinton non ne sono rimaste che 487” (p. 43). Solo che “le aree di ‘di Trump’ erano quelle più rarefatte come popolazione e quelle ‘di Hillary’ le più densamente popolate, cosicché il conteggio finale farà segnare un vantaggio di 65.844.610 voti a Hillary contro 62.979.636” (pp. 43-4). La maggioranza popolare per Hillary. Le tecnicalità del sistema elettorale a favore di Trump. Eppure nella pubblicistica questa contabilità non è stata spiegata. Due Americhe. “La Trump’s America, territorialmente immensa, distesa a occupare l’85% del territorio, tre milioni di miglia quadrate (in cui però abitano solo 146 milioni di persone, il 46% della popolazione totale degli Stati Uniti); e la Clinton’s America, incredibilmente densa e concentrata, ristrettissima in termini spaziali, appena il 15% del territorio, 530.000 miglia quadrate, ma popolatissima (174 milioni di abitanti, quasi trenta milioni in più rispetto all’altra, il 54% della popolazione americana)” (pp. 44-5). “Due mondi antropologicamente, economicamente, socialmente e culturalmente estranei, la cui differenza sembra rianimare un cleavage – una linea di frattura – che i politologi avevano usato ampiamente nel descrivere il processo di State building (e in parte anche di Nation building)” (p. 45). La provincia, la periferia, la marginalità pronte ad “impiccare l’ultimo Clinton con le budelle dell’ultimo Bush” (p. 53). Proprio lui, The Donald, il più improbabile, come 45° presidente, sul tetto del mondo. Lo stesso che, nel gennaio 2016, in occasione di un evento elettorale in Iowa, si esprimeva così: “Potrei stare in mezzo alla Quinta Strada e sparare a qualcuno, e non perderei nemmeno un elettore”.
A seguire il pericolo del Front National Marine Le Pen, risolto a favore di Emmanuel Macron. Poi, a Bratislava, i quattro Paesi del gruppo di Visegrád (Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia e Polonia), fautori di una linea di un sovranismo nazionale contro la ripartizione per quote dei rifugiati. Una Mitteleuropa inquieta, in parte compresa nei confini del vecchio impero austroungarico, in parte inclusiva di Paesi usciti dal socialismo reale. Dal caso polacco (inquietanti i 60 mila nazionalisti che hanno sfilato sabato 11 novembre a Varsavia) all’Ungheria di Viktor Orbán. Dalla Repubblica ceca delle elezioni del 20 e 21 ottobre scorsi, con l’affermazione del “Trump ceco” o “Babisconi”, il miliardario Andrej Babis. Sino all’intricata vicenda austriaca, con la controversa competizione per la presidenza della Repubblica, la ripetizione del ballottaggio tra il Verde Alexander van der Bellen e l’esponente dell’estrema destra Norbert Hofer e la vittoria finale del primo sul secondo. Poi il 15 ottobre scorso il successo dei popolari di Sebastian Kurz, primatista nel ricambio generazionale, capace, come ministro degli Esteri, delle imbarazzanti dichiarazioni sui presidi militari anti-immigrati al Brennero. Sempre in area tedesca, l’affermazione di Alternative für Deutschland. Il libro è stato scritto prima delle elezioni federali del 24 settembre. Dopo quasi due mesi, ancora nessun nuovo governo; ma i termini della questione vengono tuttavia indicati con chiarezza, a proposito di alcuni passaggi elettorali nei Länder, Berlino compreso.
Per finire, l’Italia, nella quale Revelli riconosce tre forme di populismo. Il berlusconismo. Il grillismo. Il renzismo. Sulla base di questi elementi: “forte personalizzazione” e “dis-intermediazione” (p. 120). Prima il télé-populisme (Pierre-André Taguieff). L’homo videns (Giovanni Sartori). L’“eroe teleculturale” (Marc Augé) (p. 122). L’Italia anticipa la tendenza e lo fa già all’inizio degli anni Novanta sotto la spinta della “questione morale”, meglio, della “questione giudiziaria”, interpretando “la latente crisi di sistema che, sotto la spinta della globalizzazione dispiegata, avrebbe coinvolto, tre lustri più tardi, l’intero Occidente maturo” (p. 128). A seguire il “cyberpopulismo”, l’emergere del web come nuovo universo mediatico, o “il popolo della rete” (p. 131). Cosicché, per “ogni nuova tecnologia comunicativa”, una nuova “forma di populismo” (pp. 131-2). Infine, il “populismo dall’alto”, “di governo” (p. 135). “Post-novecentesco. Post-ideologico. Post-democratico” (p. 136). “Ibrido” (p. 137). Sino alla vicenda referendaria del 4 dicembre 2016: 59,1% per il No; 40,9% per il Sì. Anche in questo caso, interessante la mappa ricostruita da Revelli. “I giovani hanno votato No all’81% secondo l’indagine Quorum o al 68% secondo Piepoli” (p. 143) e “circa un quarto degli elettori che nel 2014 aveva votato Pd, ad esempio – secondo l’indagine Quorum – avrebbe optato per il No; in compenso un’analoga percentuale di elettori di Forza Italia si sarebbe soposta sul Sì, contravvenendo all’indicazione di Berlusconi” (p. 144).