E’ arrivato in Parlamento il disegno di legge sulla manovra di bilancio del governo giallo-verde con 108 articoli con misure che valgono nel complesso 37 miliardi di euro (quota in deficit 22 miliardi e differenza 15 miliardi) e prevedono un deficit al 2,4% del PIL, contro l’1,6÷1,7% che avrebbe voluto il MEF e contro lo 0,8% promesso negli anni scorsi dall’Italia.
Tra i punti principali ci sono la una pace fiscale che in realtà è un condono, la Flat Tax per le sole partite IVA, il Reddito di Cittadinanza.
L’aspra sessione di bilancio, sotto lo sfondo minaccioso delle prossime elezioni europee, non è la causa ma l’effetto della crisi di un modello socio-economico nella fase storica che stiamo attraversando; in un momento che si vanno riscrivendo i rapporti di forza e le relazioni internazionali.
La stagione della globalizzazione a briglie sciolte è finita ma restano da affrontare e risolvere due questioni centrali:
- il passaggio dall’austerità all’espansione;
- il rapporto politica/economia, ovvero il necessario ritorno della politica capace di mediare tra gli interessi nazionali e le strutture e/o processi globali.
Perciò bisogna attrezzarsi per capire come va configurandosi il mondo, nelle sue dimensioni economiche (vedi il tema del Lavoro) e dimensioni politiche (per noi essenzialmente i rapporti con l’Europa).
Le critiche all’austerità sono giustificate: se si fanno politiche restrittive, diminuisce il PIL e aumenta il debito. Difronte ai problemi sociali e ai conseguenti sbandamenti della democrazia occorre puntare sulla crescita, ma sostenibile dal punto di vista ambientale, sociale ed economico.
Abbiamo bisogno di un cambiamento profondo non di un ritorno alle origini del nostro declino; ma per molti aspetti la manovra di bilancio in corso riporta l’Italia agli anni del tramonto della Prima Repubblica, agli anni della spesa facile che ha fatto schizzare il debito pubblico dal 60% al 100% specialmente negli anni ’80.
La manovra è espansiva ma manca di visione, si punta al “tutto e subito” per mantenere e rilanciare il proprio consenso basato su una chiara reazione di rabbia e paura popolare alle diseconomie e diseguaglianze che da tempo hanno varcato gli argini tollerabili.
L’errore sta nel non capire che l’epoca di una crescita trainata dai consumi è finita; i consumi sono importanti ma la crescita si regge nel tempo se investe seriamente nel futuro, senza bruciare risorse, peraltro limitate, per sostenere esigenze solo nel breve termine.
E poi, una manovra espansiva tutta centrata sull’aumento del debito e sul sostegno al reddito fornisce un messaggio sbagliato al Paese, proprio come accaduto negli anni ’80.
Le risorse aggiuntive devono invece servire per investire nel futuro: investimenti pubblici e privati per una crescita occupazionale; azioni di sostegno per i giovani e per la natalità; innovazione tecnologica e ricerca per reggere la competitività; piani di formazione ai vari livelli affinché nessuno resti indietro ed abbia la possibilità di cogliere le opportunità della trasformazione epocale in atto nel lavoro e nei processi produttivi; mantenimento e ripristino ambientale e territoriale; piano culturale per affrontare una sorta di analfabetismo di ritorno in atto; lotta vera all’evasione, alla corruzione ed all’illegalità diffusa; progetti socio-economici per combattere il degrado delle periferie.
Per un riequilibrio sociale, economico e territoriale, resto dell’avviso che chi ha di più deve dare di più; del resto la giustizia fiscale resta la precondizione per la democrazia liberale.
Perciò, se dobbiamo recuperare risorse per dare al maggior numero possibile di persone servizi e lavoro, sfatiamo il tabù della patrimoniale giusta e progressiva.
La ricchezza patrimoniale è di 5.268 miliardi di euro, che rappresenta circa 3 volte il PIL e 2,5 il debito pubblico. La ricchezza finanziaria, quali: conti correnti, liquidità, obbligazioni, titoli azionari, dispositivi assicurativi, ammonta a 4.290 miliardi di euro.
La ricchezza da proprietà è circa il 556% del reddito medio netto disponibile, ovvero 978 miliardi di euro.
Il Mezzogiorno è il grande assente nella manovra finanziaria come nell’agire politico.
Nel messaggio di fine anno agli Italiani, il compianto presidente Sandro Pertini nel 1982 si esprimeva così: “Il problema del Mezzogiorno non può essere considerato soltanto un problema di quelle regioni: deve essere considerato un problema nazionale se lo si vuole risolvere.”
Ma ancora oggi, la questione Sud viene derubricata e ciclicamente riproposta ma solo per marcare il territorio o per interessi occasionali.
Il Mezzogiorno resta così il “convitato di pietra”; questo è ciò che emerge dal disegno della Legge di Stabilità 2019÷2021: fra misure assistenziali; diseducativi e clientelari condoni; modesti tentativi di pianificazione progettuale e improvvisato riassetto industriale.
Il punto di partenza deve essere che il Sud è un’opportunità nazionale, non una fastidiosa appendice da cui liberarsi.
È il fulcro del Mediterraneo che dovrebbe poi essere la porta per l’Europa: i famosi confini UE; Il doppio canale di Suez ora esiste; la rotta Cinese commerciale verso la Europa sottende mire sui porti italiani;…).
L’apparato produttivo rimasto al Sud sembra essere in condizioni di ricollegarsi alla ripresa nazionale e internazionale, come dimostra anche l’andamento delle esportazioni.
Tuttavia, permane il rischio che, in carenza di politiche strategiche industriali, questo non riesca, per le sue dimensioni ormai ridotte, a garantire né l’accelerazione né il proseguimento di un ritmo di crescita peraltro insufficiente.
La ripresa degli investimenti privati, in particolare negli ultimi due anni, ha più che compensato il crollo degli investimenti pubblici, che si situano su un livello strutturalmente più basso rispetto a quello precedente la crisi (4,5 miliardi di investimenti annui in meno rispetto al 2010) e per i quali non si riesce a invertire un trend negativo. E questo rappresenta l’elemento maggiormente critico per una politica di sviluppo del Mezzogiorno.
Il crollo degli investimenti pubblici, connesso non soltanto ai vincoli fiscali derivanti dal proseguimento dell’austerità, unito alla mancata ripresa dei consumi delle Pubbliche amministrazioni, rappresenta il principale elemento di divergenza rispetto al resto del Paese.
La crisi non ha del tutto minato la capacità del tessuto produttivo ma le emergenze sociali nell’area restano allarmanti. I giovani sono tagliati fuori, aumentano le occupazioni a bassa qualifica e a bassa retribuzione, pertanto la crescita dei salari risulta limitata e non in grado di incidere su livelli di povertà crescenti, anche nelle famiglie in cui la persona di riferimento risulta occupata.
Il divario sempre più forte in termini di servizi pubblici, la cittadinanza “limitata” connessa alla mancata garanzia di livelli essenziali di prestazioni, incide sulla tenuta sociale dell’area e rappresenta il primo vincolo all’espansione del tessuto produttivo.
Gli investimenti pubblici mantengono un’elevata capacità di generare reddito rispetto all’entità dell’intervento iniziale. Per il Mezzogiorno, mentre la riduzione di 1 euro di tasse indirette determina un incremento di 0,19 euro del PIL, 1 euro aggiuntivo di investimenti pubblici produce un incremento di 1,37 euro.
Perciò, solo un consistente e permanente aumento di capitale produttivo può fornire la risposta necessaria al superamento delle difficoltà socio-economiche in cui versa il Mezzogiorno e per assicurare ai cittadini un accettabile livello di reddito e di prestazioni sociali.
L’andamento della spesa in conto capitale in questi anni ha situato il Mezzogiorno su un livello strutturalmente più basso rispetto ai livelli pre-crisi.
Particolarmente opportuna appare perciò l’attuazione, ancora disattesa, della “clausola del 34%” per la spesa ordinaria in conto capitale (proporzionale alla popolazione residente nel Mezzogiorno) e, ancor di più, di estenderla alle grandi aziende partecipate, quali: Rfi, Fincantieri, Leonardo, ENI, Enel.
Resta che l’obiettivo di riequilibrio territoriale passa attraverso una profonda ridefinizione dei programmi di spesa in conto capitale, magari con l’istituzione di un Fondo specifico in cui riversare le eventuali risorse ordinarie non spese nel Mezzogiorno, per poi finanziare i programmi maggiormente in grado di raggiungere l’obiettivo, migliorando l’efficienza e l’efficacia della spesa.
Tutto il Sud, ma in particolare la Campania, ha il triste record della disoccupazione giovanile. Un giovane su due non lavora e la fuga dei giovani e promettenti laureati non accenna a fermarsi. Che ne dicano le compiacenti statistiche, presentate “on demand”.
Non si può tacere sul preoccupante e dilagante fenomeno dei Neet (Not in employ, education and training) ovvero giovani allo sbando. Che in mancanza di sostegno, oggi coperto quasi esclusivamente attraverso il cosiddetto “welfare familiare”, si consegnano spesso al degrado sociale e culturale e finanche all’illegalità, ahimè molto diffusa.
“Resta al Sud”, la manovra varata dal governo precedente contro la disoccupazione, aiutando gli “under 35” ad avviare un’attività imprenditoriale, ha fornito un buon riscontro.
Si tratta di un fondo di €1.250 milioni (35% a fondo perduto e 65% finanziamento bancario coperto da garanzia fondo per le PMI) gestito da Invitalia, l’agenzia nazionale del MEF che si occupa degli incentivi per la nascita di nuove imprese, in generale, e delle start-up, ovvero delle iniziative nel campo dell’innovazione tecnologica e ricerca applicata.
A oggi, nella prima fase del bando, le domande avanzate sono circa 6.000 e quelle approvate sfiorano le 1.600. Inutile sottolineare che la Campania è la regione che ne ha presentato di più. Il governo intende confermare questa positiva misura nella attuale manovra di bilancio. Anzi ha espresso la volontà di estenderla agli “under 45”, prevedendo aiuti anche ai liberi professionisti. Sarebbe il caso di un ulteriore sforzo per inserire, nella stessa misura, anche ai cosiddetti “middle-age”. Sono soggetti, specialmente donne, entro i 55 anni, espulsi senza più concrete prospettive dal mondo del lavoro. Molte persone sono state buttate fuori attraverso il “rilassamento” sui diritti e tutela del lavoro determinato dallo “scellerato” Jobs Act. Hanno professionalità, cultura e tante attese di vita ancora da coltivare. Io non le metterei da parte, relegandole nella rassegnazione. Potrebbero dare ancora molto alla società, e si eviterebbe un’ennesima ingiustizia sociale. Finiscono magari per subire il miraggio della pensione da cui restano lontane ma anche del tutto impossibilitate. Purtroppo, nel migliore dei casi, sono solo “candidate” a gravare sulle spese assistenziali che questo Paese farà sempre più fatica a sostenere.
La Campania
Molti analisti affermano che oramai non c’è un solo mezzogiorno, tanto diverse sono le condizioni e le peculiarità delle varie regioni. Ma la complessità della società odierna e la competitività che regola i mercati impongono di ragionare sempre più per macro-aree con l’esigenza di reggere all’urto e di avviare azioni di ripristino e di prospettiva. Questo processo di aggregazione razionale ed omogenea non può non essere guidato che dalla Campania.
La crisi industriale non ha risparmiato la Campania, soprattutto le imprese a basso contenuto tecnologico e valore aggiunto.
Negli ultimi 5 anni, 3.359 stabilimenti regionali sono strati costretti a far ricorso alla cassa integrazione, in molti casi straordinaria.
Il tessuto produttivo locale è composto da circa 345 mila imprese attive che impiegano poco più di 1 milione di addetti.
L’indice di sofferenza d’impresa, secondo il recente Rapporto dell’Istituto per la Competitività, è più elevato di quello medio italiano. L’indice della Campania si è attestato al 5,9%, a fronte di una media italiana pari al 5,2%. Eppure nella regione il tasso di occupazione negli ultimi anni è sensibilmente cresciuto rispetto a tutto il Mezzogiorno, benché ancora basso ed inferiore a quello italiano.
Il contesto non rende di fatto il territorio competitivo rispetto all’aggressività del mercato, internazionale come nazionale. Questa diseconomia si rileva anche attraverso l’analisi dei dati del commercio estero dalla quale emerge una regione “importatrice netta” con un saldo commerciale negativo di circa 2,3 miliardi l’anno.
Ciò non significa che la Campania non possa vantare un rilevante segmento di industria esportatrice nell’agroalimentare, con una rilevante quota di export regionale sul totale italiano.
Sulla digitalizzazione si viaggia con un leggero ritardo rispetto ad altre regioni, ma nell’area metropolitana di Napoli si spende una percentuale del PIL di poco inferiore alla media nazionale, 1,2%, e certamente superiore alla media del Mezzogiorno.
Per quanto riguarda l’innovazione tecnologica, le start-up regionali sono 733, il 7,6% di quelle nazionali e circa il 31% di quelle attive al Sud. Questo colloca la Campania al quinto posto nella classifica italiana, dopo il Veneto che ne ha 851 e seguita dalla Sicilia con 511.
Il 46% delle start-up regionali sono a Napoli; seguono Salerno con il 24% e Caserta con il 16%. Se tuttavia rapportiamo il numero delle start-up alla popolazione provinciale, spicca la performance di Benevento con 183 start-up per milione di abitanti, superiore alla media meridionale e nazionale.
Napoli ha un grande potenziale inespresso che in pratica ha iniziato a sfruttare anche grazie ad iniziative come il polo scientifico-tecnologico di San Giovanni a Teduccio dove hanno investito, tra gli altri, Apple e Cisco.
Questa complessiva potenzialità del territorio andrebbe incoraggiata con tutta una serie di condizioni maggiormente attrattive, amministrative, strutturali, ambientali e di servizi.
Di certo non aiuta l’aliquota Irap al 4,97% applicata dalla Campania, la più alta tra le regioni del Mezzogiorno.
Il lavoro sommerso esiste come ovunque, ma è una questione nazionale che non sembra iclusa nell’agenda delle priorità.
L’analisi elaborata dall’ufficio studi della Cgia di Mestre su dati Istat, dice quanto basta per fornire un quadro veritiero del sommerso in Italia e in Campania, in particolare. In Italia i lavoratori irregolari sono oltre 3 milioni: 1 milione e 300 nel Mezzogiorno, 776 mila nel Nord-ovest, 517 mila nel Nord-est e 711 mila nel Centro del Paese. La Campania occupa la terza posizione fra tutte le regioni con circa 383 mila lavoratori occupati irregolari; il valore aggiunto del sommerso supera gli 8 miliardi di euro e rappresenta circa il 9% del valore aggiunto regionale; in tutte le regioni meridionali il lavoro sommerso produce oltre 27 miliardi di euro di valore aggiunto all’anno.
Il Lavoro si crea attraverso lo Sviluppo, non certo attraverso i decreti, le leggi o solo attraverso l’attivazione dei centri per l’impiego per curare l’incontro della domanda e con l’offerta. La domanda è forte ma l’offerta è praticamente assente; di certo la puoi gestire , orientare con tali centri ma non è ovviamente il centro in quanto tale che possa generare la crescita occupazionale. I centri per l’impiego per poter garantire politiche attive per il lavoro avranno prima bisogno di essere attrezzati ed ammodernati nella strumentazione, dotati di competenze professionali adeguate e di piattaforme di ricerca.
Occorre chiaramente un Piano di formazione per lavoratori di livello e cultura medio-bassi, disoccupati e inoccupati attraverso il quale garantire la disponibilità di nuovi profili e ruoli necessari a soddisfare le necessità nell’attuale trasformazione epocale del mondo del lavoro.
Bene il rifinanziamento per l’iperammortamento dei macchinari, ma lo sviluppo dell’industria 4.0 e dell’economia digitale necessita di investimenti in: innovazione tecnologica, ricerca applicata. La convinzione oramai maturata che le risorse terrestri non sono illimitate e che la natura vada rispettata ed assecondata lancia forte l’esigenza di: fonti rinnovabili, conversione energetica, economia circolare, manutenzione, recupero e ripristino dei territori. Proprio in questi giorni i fenomeni naturali e i rovesci metereologici ci stanno presentando il conto salato dell’incuria, degli sprechi e degli abusivismi.
Un piano decennale verde, per la tutela e la sicurezza dell’ambiente e territorio potrebbe attivarsi anche sulla scorta del Fondo di solidarietà europea, disponibile ed attivabile. Tale indispensabile intervento naturale e strutturale determinerebbe anche una sensibile ricaduta sociale, in termini occupazionali e non solo.
Per sostenere il sistema produttivo, che pure sta facendo la sua parte, vanno garantiti:
- il proseguimento della misure di incentivazione agli investimenti più efficaci;
- il rilancio delle misure a sostegno della cosiddetta “Industria 4.0” per la quale sarebbe necessario tener presente che Il Sud in questa evoluzione produttiva ha bisogno di colmare anche i suoi svantaggi strutturali;
- l’attuazione di strumenti di intervento, già nel paniere del Governo, come l’istituzione di Zone Economiche Speciali (ZES) nelle principali aree portuali, con incentivi fiscali e semplificazioni amministrative;
- la fiscalità più espansiva per favorire il consolidamento della domanda interna, per la quale è mancato il contributo della spesa pubblica, sia per i consumi che per gli investimenti.
È tornata la politica industriale: ovunque, ma non in Italia. In tutto il mondo ci si interroga sulle politiche per il rilancio del sistema produttivo, e i governi mettono in atto iniziative nuove, anche di grande rilevanza. In Italia, invece, tutto tace, con limitatissime eccezioni, sia sul fronte delle riflessioni e delle proposte che su quello dell’azione concreta. Le grandi manovre in atto di “merging & acquisition” di aziende e/o strutture partecipate sono oggi contingenti e funzionali per tentare di sostenere e rendere credibile una manovra nazionale di bilancio che non sta in piedi, nei numeri e nelle prospettive.
Fanno eccezione:
- l’accorpamento Fincantieri – Leonardo sotto il “cappello” Fintecna, 100% Cassa depositi e prestiti, per costituire un polo cantieristico e di difesa in grado di competere con i colossi mondiali del settore;
- la possibile acquisizione di Industria Italiana Autobus (IIA) da parte di Leonardo, per risanare un settore allo sbando;
- la ristrutturazione Alitalia attraverso le Ferrovie, con il concorso di Poste, Leonardo e Cassa depositi e prestiti a rafforzare l’impegno pubblico.
Sono operazioni di rilevanza industriale e che ci riguardano da vicino per le evidenti ripercussioni sul territorio regionale. Vorrei altresì sottolineare che, nel testo UE “Una politica industriale integrata per l’era della globalizzazione” si legge: ‘Oggi più che mai l’Europa ha bisogno della sua industria e l’industria ha bisogno dell’Europa’. Inoltre, nel documento “Un’industria europea più forte per la crescita e la ripresa economica”, il Vecchio Continente si pone l’obiettivo di riportare entro il 2020 la quota del manufatturiero nella UE dal 16% al 20% del PIL. Anche nel Regno Unito, dove è stato lanciato il “Future of Manufacturing Project”, e ancor più nei paesi emergenti, si disegnano visioni del futuro dell’industria, si lanciano programmi, si prendono iniziative concrete.
Dobbiamo perciò sostenere e rilanciare tutto il sistema industriale rafforzando la progettazione e la costruzione di prodotti ad elevato contenuto tecnologico, così da evitare la aggressiva concorrenza, difficilmente alla lunga sostenibile, da parte di paesi emergenti (Cina, India, Corea, Brasile, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Albania,….) in lavorazioni di scarso valore aggiunto.
A meno che non si voglia guardare al Sud come un bacino di manodopera, disponibile ad accettare un modello socio-economico dove le condizioni lavorative sono ben al di sotto degli standard occidentali.
Il Modello “Florida” non basta per creare opportunità di lavoro a vasto raggio, specialmente nelle zone interne con scarse risorse naturali e storiche; senza dimenticare che 6 milioni circa di persone residenti in Campania non possono vivere tutti facendo gli operatori turistici, i camerieri o i portieri d’albergo.
Così come il Modello “Corea” che consente di puntare allo sviluppo ma è caratterizzato dalla scarsa tutela dei diritti e dignità del lavoratore.
Quello che occorre è un Modello “Italiano”: uno sviluppo industriale integrato con le vocazioni turistiche e, proprio per questo, legato al ripristino e mantenimento dell’ambiente e del territorio.
Attraverso quanto su esposto ed in considerazione dello scenario tracciato, le proposte in termini di lavoro, sviluppo e politiche industriale si possono così sintetizzare:
- Patrimoniale giusta e progressiva per sostenere la povertà non combattere la ricchezza: la ricchezza finanziaria e di proprietà rappresenta circa 3 volte il PIL e 2,5 volte il debito pubblico.
- Impegno di spesa in conto capitale in accordo alla clausola del 34% da estendere anche alle Partecipate (Rfi, Ferrovie, Fincantieri, Leonardo, ENI, Enel).
- Conferma di “Resta al Sud” ma da estendere agli under 55, i cosiddetti ‘Middle-age’, espulsi senza più concrete prospettive dal mondo del lavoro, attraverso il “rilassamento” sui diritti e tutela del lavoro determinato dallo “scellerato” Jobs Act. Potrebbero dare ancora molto alla società, e si eviterebbe che, nel migliore dei casi, siano “candidati” a gravare sulle spese assistenziali.
- Piano di formazione per lavoratori di livello e cultura medio-bassi, disoccupati ed inoccupati attraverso il quale garantire la disponibilità di nuovi profili e ruoli necessari a soddisfare le necessità nell’attuale trasformazione epocale del mondo del lavoro.
- Misure a sostegno della cosiddetta “Industria 4.0” (innovazione e tecnologia avanzata) per la quale sarebbe necessario tener presente che Il Sud in questa evoluzione produttiva ha bisogno di colmare anche i suoi svantaggi strutturali; pertanto bisogna andare oltre il pur utile iperammortamento per acquisto macchinari.
- Piano decennale “green economy”, di sicurezza dell’ambiente e territorio da attivarsi anche sulla scorta del Fondo di solidarietà europea; un intervento strutturale con una sensibile ricaduta sociale, in termini occupazionali.
- Incentivazioni fiscali ed agevolazione sui costi per le imprese che assicurano la partecipazione strategica dei lavoratori nei processi e nella vita delle aziende, come avviene da tempo nelle imprese tedesche e svedesi.
- Stabilire regole ed accorgimenti affinché se lo Stato si assume dei rischi che l’imprenditore non può o non intende accettare, ha diritto di partecipare anche agli utili da reinvestire poi in attività di ampia utilità e ricaduta sociale.
- Riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, con il controllo dei ritmi di lavoro integrati alle esigenze della vita familiare e sociale; nel rispetto e mantenimento dei contratti nazionali.