Non scenderò alla stazione della Leopolda, perché le repliche delle serie televisive non mi hanno mai appassionato. Specie quando gli ascolti fanno flop, e la regia insiste nel proporre gli stessi autori con le medesime trame. Non scenderò alla Lepolda perché, come analista, non sopporto la ripetizione, quella freudiana per intenderci. Non tanto la reiterazione di slogan e parole già sentite, usate, svuotate di senso e prospettiva. Quanto la tendenza dell’individuo a replicare sempre e comunque le proprie gesta, senza mai un minimo di rettifica.
Non mi fermerò a Firenze, perché non ho voglia di ascoltare ancora i vecchi insulti, le solite accuse. Già dalla mattina seguente alle elezioni siciliane echeggiava infatti un ritornello ancora oggi molto in voga in quella kermesse, che temo accompagnerà la lunga campagna elettorale, sino a Marzo. ‘La colpa è della sinistra! Di Articolo 1 che ha consegnato l’Isola alle destre!’, tuonava uno scomposto Leoluca Orlando, in coro con Rosato, l’autore dei una delle peggiori leggi elettorali che la storia repubblicana ricordi. Dunque per tutti, o quasi, la mattina dopo la batosta mediterranea, oltre al sorgere del sole c’era una certezza in più: i bersaniani erano colpevoli. Non è dato sapere di cosa, se del tonfo del Pd, della vittoria delle destre, della siccità che ha impedito la raccolta del miele. Quello che so, è che non ho più alcuna voglia di sentire questa litania di accuse.
Non scenderò a Firenze, perché non voglio inciampare nelle scatole di cioccolatini rotte e nei mazzi di fiori rinsecchiti gettati ai margini della strada, dopo il veloce corteggiamento che gli amanti lepoldini hanno fatto alle ‘mummie’. Si, perché a fianco della linea accusatoria in cerca dell’untore da punire per la disfatta delle mura telemaiche, una seconda voce, più sottile, di ben altro registro, inanellava rime baciate e faceva appello agli scissionisti. Non più apostrofati coi soliti dispregiativi quali ‘gufi’ o ‘sinistra radicale’, ma con vezzeggiativi a dir poco inusuali: ‘compagni’, ‘parte della sinistra’… Per breve tempo il gruppo dei barbari divenne una possibile ancora di salvezza per chi intravedeva la peste incombere alle porte del maniero non più tanto sicuro, dopo la lezione siciliana. Il rottamatore correva precipitosamente nel cassonetto dell’indifferenziata, nella quale aveva scaraventato al culmine della sua furia iconoclasta quei compagni che non erano funzionali al suo progetto di egemonia. Per fortuna lo stucchevole corteggiamento ha incontrato un due di picche, e siamo di nuovo tornati ad essere la ‘sinistra massimalista’. L’epiteto massimalista è solitamente rivolto da chi ha cessato di sognare per fare strada a un presente opaco e prevedibile, è l’arma retorica di chi ha smarrito il desiderio di mettere in piedi l’impalcatura per scalare un sogno. Ti accuso di massimalismo se inizi quel cammino per andare laddove io non scorgo alcun orizzonte.
Una cosa è certa. Oltrepassando la stazione di Firenze, ci sono parole che non sentirò mai. Quelle di Renzi contro Berlusconi, e viceversa. Al contrario sarà un crescere primaverile di ammiccamenti, scambi di cortesie e reciproci inviti. Mai una sola parola stonata dell’uno verso l’altro.
Perché? Perché è chiaro, come lo era all’inizio, che la grande furia rottamatrice e innovatrice aveva in realtà uno scopo nemmeno tanto nascosto: la restaurazione del padre putativo, sodale del Nazareno, i progetti del quale oggi sono portati a compimento, come il ‘niet’ al ripristino dell’articolo 18 testimonia. Quel Berlusconismo contro il quale tanti hanno tuonato, lo psicoanalista della Leopolda su tutti, quando ancora scriveva veementi editoriali sul ‘manifesto’, giornale della sinistra massimalista che all’epoca non odorava di vecchio. Oggi abita ad Arcore il vecchio padre al quale Telemaco tende la sua mano, con l’intento di restaurare una sorta di diarchia che permetta ad entrambi di galleggiare.
Proseguirò invece per Roma. Cercherò di aguzzare gli occhi e aprire le orecchie, cercando fuori dal finestrino le parole cadute in disuso. Vocaboli banditi dalle mura fiorentine, dai tg nazionali, censurati e spesso usati a dispregio. Solidarietà, lavoro. Crisi. Minoranza. Sinistra.
Soprattutto quest’ultima parola si è sentita poco in questi mille giorni. Ho voglia di ascoltarla risuonare di nuovo, dopo anni di pulizia lessicale. Scenderò a Roma, perché sento la necessità di incontrare persone che quelle parole ancora si ostinano a usarle, gridarle, ridando loro vigore e al contempo speranza a coloro i quali le parole le hanno perse. Perse, perché hanno smarrito la loro rappresentatività, il loro lavoro, la possibilità di istruirsi.
Andrò a Roma perché so che là non troverò torve plaudenti e insopportabili di millenials, chiamati sul palco a suonare il piffero per richiamare quei coetanei che hanno voltato in massa le spalle a Telemaco. Troverò invece, più prosaicamente, i giovani. Quelli che non hanno insostenibili narrazioni epiche da propinare, ma storie da raccontare, come ho avuto modo di ascoltare qua, a Modena. Alcuni lavorano nella rosticceria, consegnano pizze, cercano un luogo di reale discussione politica. Sono stanchi di promesse e di non contare nulla. C’è chi è stato costretto ad andare all’estero o, come è accaduto di recente nelle mie terre, si è visto scaraventare fuori dal mondo della macellazione delle carni, e si ritrova oggi in strada col mirabile foglio delle tutele crescenti.
A Roma non troverò ‘reduci’, perché le battaglie sono ancora tutte da combattere. Né ‘eredi’, perché sono arcistufo dell’idea di una politica intesa come scranno proprietario da tramandare di padre in figlio. Riascolterò invece il familiare brusio di chi è solito parlare, interloquire, domandare. Litigare. Troverò fiumi che scorrevano divisi, e oggi possono finalmente confluire. Quella marea di gente che intravidi la sera del 4 dicembre di un anno fa, e che finalmente so di ritrovare in una casa comune.