I recenti pronunciamenti della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e della Corte Costituzionale indicano la necessità di abolire l’ergastolo cosiddetto “ostativo”. Fino ad oggi i mafiosi – ma anche i terroristi e i responsabili di altri gravi reati – che non hanno inteso collaborare con lo Stato, dissociandosi e concretamente facendo nomi e descrivendo strategie criminali, non hanno avuto accesso alla concessione di benefici, permessi o altre opportunità legate al senso che la detenzione assume nel nostro ordinamento.
Secondo l’Articolo 27 della Costituzione, la pena deve tendere alla rieducazione del condannato cosi l’ergastolo può essere temperato concedendo alcuni benefici. Per molti condannati, il “fine pena mai” rimane più nelle sentenze che nella pratica. Da questa prospettiva, più che condivisibile nella logica di credere nella possibilità del cambiamento di ogni donna e ogni uomo, sono stati, a oggi, esclusi i cosiddetti “irriducibili”.
Il tema centrale non sta solo nel fatto che, per rispettare il dettato costituzionale, il soggetto della rieducazione, il condannato, deve farsi parte attiva e collaborativa del percorso. Senza un atteggiamento proattivo del detenuto, la “tensione” alla rieducazione è una pura enunciazione di principio. È nella relazione, in questo caso tra condannato e sistema penale, che può svilupparsi qualsiasi tipo di percorso educativo, figuriamoci in questa dimensione eccezionale. I mafiosi, specie i capi, che non si dissociano, non collaborano, ma restano fedeli al loro codice non “possono” avviare un percorso poiché non intendono accedere a quei valori che, iscritti nella Costituzione, sono il fondamento anche dell’articolo che riguarda la condizione dei detenuti.
È evidente che il tema rimane spinoso dal punto di vista costituzionale, rispetto alla esercitabilità dei diritti e alla condizione specifica dei soggetti che ne sono portatori. E non è di semplice soluzione da un punto di vista meramente teorico, rispetto al quale ambito lasciamo ad altri, certamente più qualificati, la riflessione.
Da un punto di vista pratico vanno, però, fatte alcune valutazioni che rendono pericolose e preoccupanti le conseguenze di questi pronunciamenti. Le mafie sono organizzazioni che, a una struttura capillare radicata sui territori, affiancano, da sempre, un insieme di regole e rituali che mirano a costruire una retorica, oggi si direbbe una narrazione, che enfatizzi il senso di appartenenza tra gli aderenti e il consenso sociale tra le persone comuni. Un omicidio di mafia, una strage, valgono in quanto tali – efferati assassini spesso di vittime innocenti, che condannano a “fine dolore mai” parenti e amici – ma sono anche un elemento di una strategia di dominio dell’economia e della società che ha tenuto e tiene sotto scacco interi pezzi del nostro paese. Anche il racket delle estorsioni, lo spaccio di droga, uccidono persone, infossano aziende e affamano milioni di cittadini. Il sistema mafioso è un cancro che fa morire il corpo sano della società.
I mafiosi, per il “lavoro” che fanno, hanno messo in conto il carcere e la privazione della libertà, che sperimentano anche durante la latitanza, per esercitare un potere assoluto su persone e comunità. Immaginare, dentro questa visione, che coloro che, proprio per non avere collaborato, non hanno rotto il vincolo di adesione alle mafie, possano godere di benefici o premialità sarebbe un messaggio devastante, dal punto di vista simbolico ma anche terribilmente concreto.
Il nostro Paese, ha scelto prima di altri l’eliminazione della pena di morte dal proprio ordinamento, rinunciando alla prerogativa, disumana, di decidere della morte di un cittadino, prerogativa che invece è insita nel sistema mafioso, che pone a fondamento la violenza e il terrore. La misura dell’ergastolo “ostativo”, mira nel rispetto dei diritti del singolo, a difendere la collettività da soggetti che spesso anche dal carcere “duro” hanno saputo, con un gesto o una frase in codice, proseguire la propria azione eversiva e destabilizzante.
Le mafie, con la corruzione, sono il primo problema del Paese poiché in concreto frenano e “uccidono” lo sviluppo specie se sostenibile e rispettoso dei diritti dei lavoratori. Lo Stato non può in alcun modo scendere a patti, o cercare mediazioni con le mafie neanche con un singolo mafioso, neanche nella dimensione di premialità nel sistema penale. Un “uomo d’onore” se rimane tale, se cioè non collabora, non si pensa come portatore dei diritti, e quindi dei doveri, iscritti nelle Carte Fondamentali ma come membro di un'”altra” società che nell’avversione violenta a quei diritti e a quei valori trova la sua ragion d’essere.