Lo hanno chiamato l’accordo del secolo, ma è solo un volantino ben confezionato per la campagna elettorale di Netanyahu. Gentilmente offerto da Donald Trump, ossessionato anch’egli dai guai di politica interna che lo affliggono, nonché preoccupato per il risultato di Bibi nelle elezioni di marzo prossimo. Le terze in meno di un anno.
Il piano di pace presentato dal Presidente Usa ieri in pompa magna davanti alle telecamere di tutto il mondo fa acqua da tutte le parti, ma soprattutto è ingiusto.
1) Innanzitutto certifica lo status quo: le colonie illegali – che ospitano 600000 persone circa, presenti in Cisgiordania contro qualsiasi risoluzione ONU dal 67 in poi – non saranno smantellate e saranno parte dello Stato di Israele. Gli insediamenti sono il vero punto dello scontro tra palestinesi e israeliani e le compensazioni proposte da Trump su alcune porzioni di territorio – soprattutto desertiche – sono considerate offensive.
2) Gerusalemme diviene capitale unica e indivisa di Israele. L’aperitivo lo avevamo già visto con la scelta di Trump di rompere la consuetudine dell’ambasciata a Tel Aviv (come tutti gli altri paesi del mondo), spostandola nella città sacra. Ai palestinesi una non meglio identificata possibilità di impiantare la propria Capitale nei sobborghi ad est di Gerusalemme. Non avranno alcuna giurisdizione sulla città vecchia, se non – come già adesso accade – la responsabilità del pattugliamento insieme alla Giordania del terzo luogo sacro dell’Islam, la Spianata delle Moschee. Oggettivamente troppo poco.
3) Non viene garantita la continuità dello Stato palestinese se non con un Tunnel per ricongiungere Gaza con la Cisgiordania né viene assicurata la giurisdizione sul controllo dei confini, che tra l’altro non lambirebbero per nulla la Giordania. Insomma, uno staterello a macchia di leopardo incapace di esercitare alcuna autorità e senz’altro dipendente da tutti i punti di vista – commerciali, energetici, militari – da Israele.
4) Viene esclusa ogni possibilità di garantire il rientro dei milioni di profughi palestinesi che da settant’anni sono fuori dalla propria terra. Un diritto sancito dalle risoluzioni delle Nazioni Unite. Esattamente il punto su cui si arenarono gli ultimi tentativi di accordo a Camp David e Tana ormai quasi venti anni fa.
Immaginare di risolvere un conflitto che ha oltre mezzo secolo a suon di verdoni – la proposta dei 50 miliardi è stata immediatamente respinta al mittente – non solo è illusorio, è sostanzialmente miope. La dimostrazione di una politica estera statunitense che non ha bussola perché immagina di costruire la pace al netto dell’opinione di uno dei due contraenti.
Ovviamente questa condotta è estremamente rischiosa se non irresponsabile. Può riaccendere la collera, indebolire la leadership palestinese nel campo arabo, incendiare un conflitto senza sbocchi. Servirebbe una parola più netta degli organismi sovranazionali, un ruolo più attivo dell’Ue – che non può smarrire la vocazione mediterranea – ed anche una presa di posizione netta dell’Italia. Che non può stare in silenzio. Perché l'”accordo del secolo” non è concepito da pompieri, ma da piromani.