Non conoscevo il nome di Lorenzo Orsetti prima di questa mattina. Non il suo percorso politico piuttosto che le sue passioni culturali né tantomeno la sua visione della vita. Sicuramente lontana dalla mia, allergico come sono all’idea di imbracciare un fucile e di sparare, convinto come sono che la pace e la diplomazia contano più delle bombe o delle granate.
Se mio figlio mi dicesse “vado a combattere contro l’Isis” cercherei in tutti i modi di fermarlo. E penso che farei bene.
Non so, tuttavia, quali sentimenti lo abbiano spinto ad andare laggiù, in quella terra così strategica, ma così martoriata. Una scelta indubbiamente radicale e definitiva. Quando metti in conto l’idea di perdere la tua stessa vita è così. E io ovviamente lo rispetto profondamente.
So soltanto che è andato a combattere lì dove l’Isis ha colpito più forte, al confine con Kobane, tra la Turchia e la Siria, per difendere quella regione curda, la Rojava, che resta la punta più avanzata dell’utopia di un Medio Oriente laico e democratico.
Era sicuramente animato da ideali di giustizia e fratellanza internazionalistica e detestava il fascismo fondamentalista del Daesh.
Non credo si considerasse un eroe né che avesse voglia di diventarlo. Era troppo giovane per aspirare a diventare un’icona.
Eppure questa morte drammatica, verso cui dobbiamo inchinarci, ci mette davanti alle nostre responsabilità. Non dovremmo mai dimenticare il tributo enorme di vite che il popolo curdo ha dato al mondo intero per difendere la libertà contro chi ha diffuso il terrorismo di matrice islamista. E che le loro vittime sono uguali alle nostre. Meritano gli stessi onori e le stesse lacrime.
Che la terra ti sia lieve, Lorenzo.