Ora che le restrizioni cominciano a rilassarsi, la domanda che sempre più spesso ci sentiamo rivolgere da giornalisti, commentatori, intellettuali è: come sarà dopo la pandemia? È una domanda “buona”, certamente contiene la speranza di una ripresa di relazioni sociali finalmente appaganti. Ma, in realtà, è più profonda: come sarà la nostra vita, come sarà il mondo? In questo senso appare un po’ fatalista, come se gli eventi si sviluppassero ineluttabilmente e spontaneamente verso soluzioni “naturali”. Non sarà così, e la domanda ancora più “buona” è: come vogliamo che sia dopo la pandemia?
Una conseguenza drammatica delle misure adottate per combattere il coronavirus è l’aumento delle diseguaglianze. Aumenteranno i disoccupati, i poveri, le differenze a scuola, penalizzando chi non ha accesso alle tecnologie digitali e ha nella scuola anche un luogo, magari l’unico, di sicurezza e assistenza.
Ricordiamolo: già prima della pandemia, l’Italia era tra i paesi con il più grande divario tra ricchi e poveri. E dopo sarà peggio.
Ora, sulla spinta dell’emergenza, enormi quantità di risorse finanziarie vengono messe in campo per garantire un’adeguata capacità di spesa delle famiglie e una possibile ripresa di attività produttive. L’assunzione di decine di migliaia di medici e infermieri, gli annunciati concorsi per insegnanti nelle scuole sono ottimi segnali. Permetteranno di immettere giovani appena formati e stabilizzare dipendenti che da anni sono in situazioni di demotivante precarietà.
È questa la strada giusta. Il recente decreto dei 55 miliardi espande opportunamente questi interventi di emergenza, e riesce persino ad affrontare in qualche misura il problema del lavoro nero e dei clandestini, vergogna sociale e “morale” che finora non si accennava neanche a risolvere perché tante forze politiche lo ritenevano e dichiaravano impopolare tra gli italiani.
Bene! Ma ora, subito, è il momento di avere dei progetti per evitare che, trascorsi questi pochissimi mesi di coperture di emergenza, tutti i problemi che già avevamo si ripresentino ancora più drammatici. È necessario che si facciano progetti, graduali, ma che indichino una prospettiva.
Sappiamo benissimo che
Scuola, Formazione, Università e Ricerca
Salute
Ambiente e Territori
Infrastrutture Materiali e Digitali
non sono solo Beni comuni e di valore universale, sono anche le grandi occasioni di creazione di posti lavoro, le sole che potranno stabilmente accrescere l’occupazione e contemporaneamente dare concrete motivazioni per una coesione sociale che si è progressivamente smarrita a causa della precarietà delle condizioni di vita, colpevolmente aggravate da scellerate e divisive politiche del lavoro.
Non possiamo più soltanto evocare questi propositi in modo autoassolutorio, come buona parte della sinistra ha fatto per troppo tempo: devono diventare progetti.
Quali sono le sedi per discutere le molteplici ipotesi che certamente si possono avanzare? Questa è davvero una domanda difficile, anche se la risposta è scontata: i partiti hanno questa funzione. Ma i partiti di oggi sono in grado di farlo? C’è davvero spazio al loro interno per confronti aperti e costruttivi, necessariamente dirompenti rispetto alle costrizioni di gruppi con leader autoreferenziali?
Articolo Uno nasce proprio da questa esigenza, per fortuna, e dobbiamo contribuire a sviluppare questo dibattito: rifondare i partiti, perché al di fuori di questo non c’è soluzione democratica. Forme nuove, modalità nuove, tutto il nuovo che si vuole. Ma bisogna farlo, sfuggendo all’identificazione della critica ai partiti con l’antipolitica.
Abbiamo già pagato un prezzo altissimo per questa sciocchezza, servita solo a legittimare gruppi dirigenti autoreferenziali lontanissimi dall’idea di progettare il futuro. Purtroppo temo che stia crescendo, anche al nostro interno, l’idea che la sede di progettazione e dibattito si esaurisca nel confronto e nella mediazione interna al governo. Se è così, sarà tutto molto difficile. Impegniamoci perché non sia così.