Obiettivo essere autonomi, non alternativi. La domanda giusta è: cosa serve all’Italia

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Sono certamente giorni difficili per il nostro progetto. Ugualmente, penso che proprio questo sia il momento di rafforzarci nella convinzione di tenere la barra dritta sul nostro obiettivo: costruire Liberi e Uguali.

Lo dico, e lo dico a maggior ragione in un momento di oggettiva difficoltà, perché credo che nella nostra formazione, politica e civile, esista al fondo un senso di responsabilità profondo verso la nostra comunità, una volontà forte di identificarsi con i suoi destini. Per questo dobbiamo partire da questa domanda: “Che cosa serve all’Italia?”. Partiamo da qui, proviamo a interrogarci su questo. Se siamo dove siamo, credo, è perché pensiamo che al nostro Paese serva una forza politica della sinistra, fondata sulle questioni del lavoro e dell’ambiente, che metta in cima alla sua agenda la lotta alla disuguaglianza in tutte le sue forme. Una forza che abbia l’ambizione non di essere autosufficiente (perché per dire questo dovremmo derogare al principio di realtà) ma certamente, e io dico anche orgogliosamente, quella di non essere residuale.

Come l’avevamo immaginata, un inverno fa, questa nostra nuova casa? L’avevamo pensata come l’incontro tra due comunità politiche (anzi, tre!), che avevano trovato nell’alto profilo di Pietro Grasso un valore aggiunto per parlare alla nostra gente. Nei nostri progetti, non voglio dire nei nostri sogni, LeU doveva essere questo. Cosa è successo dopo? Il 4 marzo, il giorno più amaro degli anni del nostro impegno. E’ successo che abbiamo azzeccato la diagnosi, abbiamo visto realizzarsi esattamente quanto avevamo previsto: lo smottamento del centrosinistra, la certificazione elettorale di una divisione sentimentale con il Paese. Insieme, però, abbiamo dovuto riconoscere che la nostra proposta non ha avuto la credibilità necessaria per arginare la frana. Il motivo, a mio parere, è il seguente: non siamo stati in grado di lanciare un messaggio che andasse oltre le nostre biografie. In altre parole, siamo stati percepiti come un listone elettorale e di conseguenza giudicati.

Poi siamo rimasti fermi per un po’, come sotto shock. Poi abbiamo fatto ancora diversi errori, tutti e nessuno escluso. Scelgo di non menzionare quelli degli altri e ne cito uno che vale per noi, per la nostra comunità politica: credo che Articolo Uno dovesse investire con più convinzione sul percorso del comitato promotore nazionale. Con la stessa franchezza con cui è giusto riconoscere questi limiti, però, è il caso di riaffermare che abbiamo una responsabilità: quella di parlarci ancora.

Prima di riprendere il dialogo, però, è necessario che sia messo un punto. Il ritorno alla casa precedente, che nel mio caso è il Pd, è un argomento che deve essere messo fuori questione. Se ho lasciato quel partito non è stato per un vezzo o per l’opportunismo di una stagione, ma perché mi sono convinto che quel progetto non abbia più la spinta per uscire dalla sua profonda crisi. Su una scelta così dolorosa e difficile penso si debba avere una parola sola e penso che si possa pretendere di essere creduti. Voglio chiedere con forza che questa discussione sia archiviata una volta per tutte, perlomeno se si ritiene che si stia tra persone serie. Allo stesso tempo penso che anche il gruppo dirigente di Sinistra Italiana debba sentirsi vincolato a una giusta coerenza con quanto abbiamo ci siamo detti questo inverno: mettere in gioco le rispettive identità e sciogliere i nostri movimenti per costruire una casa comune. Su questo non è accettabile che si torni indietro.

La mia opinione sulla nostra situazione è dunque la seguente. Torniamo alla domanda da cui abbiamo iniziato: cosa serve al Paese?

Non serve, lo dico con determinazione, che noi si vada a costruire l’ennesimo cartello elettorale. Capisco che possa essere una prospettiva che ha le sue ragioni di ideale attrazione, ma se pensiamo all’Italia prima che a noi stessi credo risulti con evidenza che questa non è la scelta giusta.

Non serve, inoltre, che noi nasciamo definendoci come “il partito alternativo a”: costruire un’identità sull’essere altro da qualcuno è di per sé un segno di subalternità.

Quello che serve, infatti, non è un partito alternativo ma un partito autonomo: sono due concetti profondamente diversi. Serve una forza che a tutti i livelli legittimi i suoi gruppi dirigenti e che ad essi consegni il pieno titolo di decidere come mettersi a disposizione delle rispettive comunità. E’ certamente il momento di essere espliciti, e dunque faccio anche un esempio di quello che intendo. Sono assolutamente convinto, ancora oggi, che alle elezioni politiche del 2018 non fosse il caso di entrare a far parte della coalizione di centrosinistra. L’ho pensato al tempo e non cambio idea dopo il 3,4%: semplicemente, non si presentavano le condizioni politiche. Con la stessa convinzione penso che sarebbe un atto di pura irresponsabilità, nel difficile turno amministrativo che ci aspetta, non mettere le nostre energie a disposizione di coalizioni progressiste che possano contendere il governo delle città alla destra securitaria e xenofoba. Casi diversi, livelli territoriali diversi, problemi diversi, sistemi elettorali diversi: è legittimo, persino normale, che le decisioni possano essere diverse.

Aggiungo una domanda, volutamente sfidante e provocatoria. E se il Pd non fosse stato trattenuto dall’azione di Renzi sulla sciagurata linea del “senza di me”? Se ci fosse stata la possibilità di aprire una stagione diversa da quella dei pop corn? Ma in quel caso noi non avremmo dovuto mettere i nostri gruppi parlamentari a disposizione di una confluenza che tenesse la Lega Nord lontana da quel Governo che sta ormai monopolizzando? Io a questa domanda risponderei senza alcun dubbio. Ricordiamoci sempre che a furia di inseguire una purezza concettuale si rischia di perdere di vista la necessità di interrogarsi sull’adeguatezza alla causa del concetto che si propone.

Concludo così.

Io mi rifiuto di pensare che la discussione sulla nostra collocazione in un gruppo parlamentare europeo piuttosto che in un altro sia ciò che fa naufragare il nostro percorso. Sono altrettanto convinto che questo non possa avvenire a causa di una diversità di vedute sulla questione iscrizioni cartacee contro iscrizioni online. Lo dico anche perché, se ci guardiamo intorno, sappiamo benissimo che non esiste alcun tipologia di partecipazione che noi possiamo in questo momento permetterci di rifiutare, purché sia genuina. Rinsaldiamoci dunque nel nostro proposito: un partito che metta al centro la questione di una nuova Europa, che metta a disposizione la sua forza grande o piccola per costruire quel “costituzionalismo oltre lo Stato” di cui ha straordinariamente scritto Luigi Ferrajoli nel suo “Manifesto per l’uguaglianza”. Partiamo da qui e celebriamo un congresso nel quale fisiologicamente si confronteranno visioni diverse, perché un partito può essere piccolo senza essere angusto. E accettiamo, quando andremo a discutere, l’eventualità di perdere e di metterci al servizio della visione che risulterà democraticamente più accreditata tra la nostra base.

Un passo indietro oggi e una dichiarazione di reciproca realtà possono aprire la strada di un nuovo cammino per la sinistra. Penso che l’Italia ne abbia profondamente bisogno. E noi di questa esigenza dobbiamo metterci umilmente al servizio.

Giacomo Galazzo

Assessore alla Cultura, Turismo e Legalità del comune di Pavia. Coordinamento regionale di Articolo Uno Lombardia. Avvocato e dottore in diritto pubblico.