Il 21 gennaio 2021 cade il centenario di un evento che segnerà nei decenni futuri la storia italiana: il 21 gennaio 1921 ci fu la più significativa scissione, oggi la chiameremmo la madre di tutte le scissioni; l’ala del Psi che faceva capo a Bordiga, Togliatti, Terracini e Gramsci abbandona il XVII congresso del partito che si teneva a Livorno e spostandosi per le strade della città al canto dell’Internazionale esce dal teatro Goldoni dove si teneva l’assise socialista e si sposta al teatro San Marco, dove ha luogo il congresso di nascita del Partito Comunista d’Italia.
Nell’aria oggi c’è il ronzio dei motori che si scaldano per questo anniversario e già cominciano a uscire libri e articoli, o quantomeno ad essere in gestazione ed allora ho pensato: mi porto avanti anch’io, non certo per sottili disquisizioni storiche, che lascio a chi la materia la conosce e la mastica meglio di me, ma invece per lanciare un appello: non facciamo di questo centenario un terreno sul quale gettare polemiche e diatribe attuali.
E’ passato un secolo e se non riusciamo a contestualizzare quegli eventi, se invece di studiarli e osservarli con occhi critici di ricerca li appiattiamo sulla nostra attualità non facciamo un bel servizio né all’analisi storica né alla possibilità di agire nella nostra contingenza.
Da sempre, ma in particolare negli ultimi anni sulla scissione di Livorno si confrontano due “linee” di pensiero: una convinta che sia stata una catastrofe, l’inizio di una serie di scissioni fino ad arrivare ai numerosi piccoli partiti odierni (che poi mica si sono staccati da un grande partito come il Psi di allora…), l’altra che rivendica la giustezza pura di quella scelta.
Sarebbe giusto ricordare che, sebbene quella del teatro San Marco sia stata la più significativa scissione, il Psi ne aveva già subite (a destra) con uscite e rientri che manco oggi il Pd, e sarebbe giusto ricordare che quello che nacque allora a Livorno non era quel masso di granito che ci si vuole raccontare e che le tensioni politiche e di prospettiva tra Bordiga, Togliatti e Gramsci non erano poca cosa.
A quel congresso il partito del socialismo ci arrivò diviso non poco: ben cinque correnti si contendevano la leadership in uno scenario di lotta senza confini tra l’una e l’altra, in un congresso dove balenarono anche le canne delle pistole. E soprattutto ci arrivò sconfitto: sopraffatto dalla sua volontà di rivoluzione non supportata dalla capacità di farla alla conclusione di un “biennio rosso” che non riuscì a colorare di quella tinta un Paese che di lì a poco si sarebbe colorato di un altro colore, nefasto e scuro come la tragedia cui portò l’Italia. Sconfitto era stato il Psi, partito della rivoluzione mancata, da chi, “ex compagno”, la sua rivoluzione partendo non tanti mesi prima riunendo cento persone scarse in una piazzetta milanese era riuscito a farla e sarebbe riuscito a conservarla viva sino alla tragedia immane della guerra.
Negli anni seguenti, quelli della costruzione e del consolidamento del regime fascista, ci fu chi si ritirò in attesa di tempi migliori sull’Aventino e chi invece restò clandestinamente organizzato e poi fu motore vent’anni dopo della costruzione e dell’organizzazione della Resistenza, non da solo ma sicuramente determinante.
Nel dopoguerra il Pci fu argine e proposizione a partire dai lavori della Costituente; fu capace con il suo leader Palmiro Togliatti, scissionista della prima ora, di lavorare per riunificare l’Italia in nome della ricostruzione.
Ognuno nel corso della storia esercita le sue scelte e oggi guardare ai giorni di Livorno come a qualcosa che fu errato o salvifico è un esercizio che non ha alcun senso. Quella scissione fu e punto; studiamola, analizziamola, ma per favore non facciamola uscire per piccoli interessi di bottega o per incapacità di guardare all’oggi dal solco della storia.