Checché ne pensi il presidente del Pd, Orfini, non c’è dubbio che la stagione ulivista abbia rappresentato uno dei momenti più felici che il nostro Paese abbia conosciuto negli ultimi vent’anni. L’idea di un governo improntato alla serietà e capace di coniugare crescita, sviluppo e rigore dei conti pubblici, del resto, è uno dei motivi principali per cui abbiamo dato vita ad Articolo Uno e per cui stiamo lavorando alla ricostruzione di un campo largo del centrosinistra.
Tuttavia, per ragioni di età, mi rendo conto che la suggestione ulivista abbia senz’altro una certa presa su coloro che hanno vissuto quei giorni ma che dica poco o nulla a quei miei coetanei che all’epoca vagivano o non erano neanche nati. Mi capitò, ad esempio, nel maggio dell’anno scorso, di portare a cena in piazza Santi Apostoli un gruppo di amici della Scuola di Politiche fondata da Letta e mi resi conto che nei loro occhi non brillava la stessa luce che brillava nei miei all’idea di trovarci nel ristorante in cui furono poste le basi per dar vita a quel progetto. Questione di esperienze personali e di vita vissuta: nulla di cui scandalizzarsi.
Questo è un altro tempo, le elezioni, con ogni evidenza, non si vincono più al centro e la necessità che si avverte, al contrario, è quella di includere e rendere di nuovo partecipi della cosa pubblica quei vasti settori della società che oggi vivono ai margini, fra esclusione, mancanza di lavoro e di opportunità, disincanto e una pericolosa sfiducia nei confronti dei partiti, delle istituzioni e della politica in generale.
Occorre, dunque, un progetto in grado di unire, di includere, di riannodare i fili che tre anni e mezzo di renzismo hanno spezzato, di chiudere a qualunque ipotesi di alleanza post-elettorale con Berlusconi e di ripartire dalle nostre idee e dai nostri valori. D’altronde, se abbiamo vinto il referendum dello scorso 4 dicembre, è perché molti elettori del Pd e della sinistra non hanno condiviso una torsione della Costituzione in senso plebiscitario che nulla aveva a che spartire con le proposte di riforma avanzate, a suo tempo, dall’Ulivo e nulla aveva in comune con quel riformismo inclusivo e dal basso che è stato la chiave delle fasi più proficue della storia italiana.
Non a caso, autorevoli esponenti di quell’esperienza, da Romano Prodi a Rosy Bindi a Enrico Letta, e perfino Veltroni, benché abbia confermato pubblicamente il proprio sostegno al Pd, hanno detto espressamente che, se dovesse andare avanti il disegno renziano di un partito centrista tendente a destra e pronto ad allearsi con soggetti che abbiamo sempre contrastato, nel metodo e nel merito, loro in quel partito non ci si riconoscerebbero più.
E poiché, conoscendo Renzi, sappiamo bene che c’è un preciso disegno dietro la scelta di varare una legge elettorale che ricorda più un vestito d’Arlecchino, in cui ciascuno dei contraenti è stato accontentato nel punto che più gli stava a cuore, che un esempio di compromesso al rialzo nell’interesse del Paese, coscienti di ciò, riteniamo ancora più giusto proseguire lungo la strada intrapresa. Vale per chi è chiamato ad assumere le decisioni in prima persona ma anche per chi ne è un semplice ma interessato osservatore.
Quanto ai valori del referendum e della Costituzione, non è certo un caso se abbiamo deciso di chiamarci Articolo Uno, con un esplicito riferimento ai cardini del nostro stare insieme e a quel “programma politico della Resistenza” che, oggi più che mai, deve essere rivendicato e attuato. Ciò premesso, sarebbe più che mai sbagliato escludere o porre paletti nei confronti di quei tanti elettori e militanti che in buona fede, e magari per un eccesso di disciplina di partito, lo scorso 4 dicembre hanno votato SÌ ma oggi proprio non riescono a riconoscersi nel renzismo e in ciò che esso rappresenta. Seguendo questo criterio, altrimenti, bisognerebbe coinvolgere pure Salvini, il quale non mi sembra né il miglior rappresentante dei nostri ideali né un interlocutore con cui ricostruire alcunché: abbiamo rivendicato con orgoglio che il No non avrebbe potuto e non si sarebbe dovuto trasformare in un partito e, visto che questa decisione è stata uno dei suoi punti di forza, è bene non deragliare dai binari seguiti sinora.
Un soggetto ampio, accogliente, aperto a tutta la sinistra e alla miglior società civile, a chi ha difeso la Costituzione e vuole continuare a difenderla e ad applicarne i princìpi e a chi si batte da anni in nome dei beni comuni e della dignità della persona: questo dev’essere il nostro campo. Non un nuovo Ulivo, dunque, ma un’alternativa per il cambiamento, oggi che l’Italia ha un disperato bisogno di cambiare stile, abitudini, rappresentanti, pratiche di governo e modalità di confronto. È un’esigenza non procrastinabile e per questo, il prossimo 1° luglio, a Roma, io ci sarò.