Poco più di due anni dal 4 dicembre 2016. Sei mesi dal 4 marzo. Cinque e mezzo circa alle elezioni europee.
In Francia, la rivolta dei gilet gialli contro sua maestà formato mignon, Emmanuel Macron, modello presidenziale in crisi.
In Germania, la Merkel lascia la guida della CDU dopo 18 anni: al suo posto la delfina Annegret Kramp-Karrenbauer, con forti aperture alle tematiche ambientali, tatticamente pensate per contenere la crescita dei Verdi, che hanno beneficiato del crollo dei socialdemocratici in tutta l’area di lingua tedesca, Austria compresa.
In Gran Bretagna, a 24 ore dal voto cruciale sull’accordo per la Brexit in Parlamento, Theresa May decide di rinviarlo, nel timore di una bocciatura da parte della Camera dei Comuni. Dichiarazione di Corbyn: “Il governo ha perso il controllo della situazione”.
A proposito di Europa: 50 anni circa dal trattato di Roma, oltre un quarto di secolo da quello di Maastricht, un progetto, per certi versi, appena nato. Quali proposte per un’altra Europa, non da qui alle prossime settimane, ma ai prossimi decenni? Vogliamo che venga giù tutto, oppure lavorare per uno Stato sociale a dimensione europea?
Intanto quelli del “tireremo diritto”, isolati in Europa, trattano con Junker per la “rimodulazione” della manovra, secondo la definizione del primo ministro.
Flat tax, reddito di cittadinanza, quota 100, tre cose molto diverse, ma identificative. Sappiamo bene che faranno fatica a farle e che le potranno fare solo in parte, anche se, attraverso la propaganda, ogni giorno montano tanta panna. Ma i fatti sono più testardi di tante parole. Non possiamo limitarci a dire sì o no in modo subalterno.
Il Censis, con il conseueto pizzico di visionarietà, invita il Paese a riflettere sul “sovranismo psichico” che lo sta caratterizzando.
Quello che è stato detto il “partito del Pil” (espressione, lo so, discutibile) batte un colpo e lo fa nell’ex capitale della manifattura italiana, Torino. Preoccupazione, in parte per la perdita delle vecchie rendite di posizione, in parte perché tra sviluppisti e adepti della decrescita felice, da questo governo, è emersa, sin qui, molta confusione, mentre la situazione economica si sta aggravando, non solo per lo spread, anche per lo spread, verso una nuova recessione.
Il decreto sicurezza, sostenuto dall’attuale maggioranza, propone un altro Paese: grillettopoli; sino ad arrivare a forme di privatizzazione della pena di morte. La Lega, scesa dalla valli, raggiunge Roma, riempie piazza del Popolo, con tutto quel che significa; il ministro dell’Interno cita Martin Luther King, Giovanni Paolo II, tanto per dialogare con l’attuale Pontefice, e niente meno che De Gasperi. Vorrebbe essere lui a trattare con l’Europa, al posto di Conte, e chiede, alla piazza, un mandato plebiscitario. Questa la tendenza in atto.
Nel fine settimana la tragedia di Corinaldo; una grande tristezza che ha a che fare con la situazione politica più di quanto si pensi; ancora una volta, come per il ponte Morandi a Genova, nessuna fatalità, piuttosto un Paese che appare senza regole, senza controlli, fuori controllo, senza una vera cultura della sicurezza. Al primato delle morti sul lavoro si sommano le stragi nel tempo libero.
C’è un filo che tiene insieme queste cose: un Paese che sembra finito in un vicolo cieco. Dentro la grande faglia che segna il nostro tempo: quella posta tra un sistema democratico in crisi, alla ricerca di occasioni di partecipazione dei cittadini, e che fa fatica a ridefinire i valori della convivenza, a partire dal fenomeno dell’immigrazione.
E noi? Il problema non è più la sconfitta del 4 marzo, che ha lasciato dietro di sé, come sappiamo, uno scenario di rovine, in tutto l’arco delle forze della sinistra, nessuna esclusa. Il problema è che, a sei mesi da quella batosta, ancora non c’è una risposta all’altezza. LuE, ovvero il mancato decollo di LeU, è conferma, tutt’altro che imprevista, di questo. Un copione già scritto. Un lento sfarinarsi, inesorabile come la profezia che si autoavvera, di una proposta elettorale nettamente sotto la soglia delle esigenze e delle attese.
Ricordo le elezioni del 1994, Occhetto e Martinazzoli divisi, la vittoria di Berlusconi, lo choc successivo; ma, sei mesi più tardi, l’allora centrosinistra, già nel febbraio 1995, seppe avanzare una proposta al Paese, un anno più tardi la presentò al voto delle politiche del 2006 e vinse. Adesso? Rischio irrilevanza, a partire dal partito arrivato secondo nelle elezioni del 4 marzo, il Pd, mai come adesso avvitato su se stesso.
Noi, oltre al minoritarismo dei numeri, dobbiamo evitare quello delle idee. Non tutto dipende da noi, ma per ciò che dipende da noi, dobbiamo impostare un progetto nuovo, pensando ad Articolo Uno non come un approdo, ma come l’avvio di qualcosa di più ampio. Il piccolo che siamo deve guardare a qualcosa di più grande.
Com’è noto: non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare. Tutti dentro la stessa fatica. In un’esperienza autentica di volontariato politico. Facciamo questo passaggio del 16 a Roma, rendiamolo un processo aperto e inclusivo. Non la logica delle componenti; metodo democratico; una testa un voto. Bisogna che qualcuno si metta davvero a costruire, sin d’ora, un’alternativa credibile. A partire dalla diseguaglianza che cresce, tra vecchie e nuove povertà, materiali e non solo.
Davanti a noi un appuntamento elettorale dietro l’altro, tra amministrative ed europee. In una stagione ampiamente oltre la contendibilità. Due fa più di uno. Gli elettorati del centrodestra e dei Cinque Stelle, ai ballottaggi e non solo ai ballottaggi, destinati a prevalere. So bene che nessuno vuole una sommatoria di sigle. A maggior ragione bisogna lavorare per la discontinuità – una discontinuità che si deve vedere.
Stiamo alla politica. Sia in ordine alla questione verso quale progetto politico, sia sulla questione verso quale forma-partito. Chi, pur coltivando non poche disillusioni, nonostante tutto, continua a guardare a noi, è interessato soprattutto a questo.