La frase di D’Alema sul Pd guarito dalla malattia del renzismo, pronunciata durante l’intervento fatto in occasione degli auguri per il nuovo anno di Articolo Uno ed estrapolata da un discorso molto più ampio, che ci interroga su questioni assai complesse a partire dal giudizio e del rapporto che le forze progressiste del Paese devono avere con il Governo Draghi, mi vede in disaccordo.
Credo di averlo scritto in qualche mio articolo di qualche anno fa: non ho mai considerato Renzi la malattia del Pd, ma ho sempre considerato Renzi la conseguenza, il frutto, amaro, più maturo delle malattie del Pd.
Non sono stato costretto ad abbandonare il Pd, e credo di poter interpretare il pensiero di tanti altri democratici che hanno compiuto la medesima scelta, in forza di una questione “personale” nei confronti di Renzi, ma perché il Pd di Renzi aveva portato alla massima esasperazione mali che si erano generati nel tempo. E da cui, tanto per essere chiari (e sempre con il più profondo rispetto per una comunità che ho contribuito, nel mio piccolo, a costruire), non vedo segnali di guarigione.
Il Pd è un partito malato, che continua ad esserlo.
Chiedo scusa se il termine può sembrare inopportuno, come forse giustamente è apparso a Renzi stesso in questa drammatica fase della storia del Paese. Va senza dire che si parla di malattie politiche, sociali, comportamentali, culturali. Il Pd è un partito che non è guarito da queste malattie. Le tessere che sono state annullate nei giorni scorsi, in Irpinia, a centinaia, perché risultate pagate da un’unica carta di credito, sono solo l’ultimo degli esempi di una comunità democratica, quella vera, che viene mortificata da questa roba.
E queste cose nei territori ci sono sempre state. Finanche quando alla guida del partito ci sono state figure di indiscutibile spessore morale, prima ancora che politico, come Guglielmo Epifani e Pierluigi Bersani.
Non c’è stato un Segretario nazionale che sia stato capace di tirare il partito fuori dalle logiche dei notabilati locali, con le loro degenerazioni. A meno che non ci si voglia nascondere dietro al mignolo di un neonato, questo è il Partito dove ancora oggi, come ieri, Renzi o non Renzi segretario, è possibile lanciare l’opa per acquistare il pacchetto di maggioranza del partito locale. Basta trovare qualche riccone da spennare (magari con un pizzico di furbizia in più rispetto all’utilizzo di una sola carta di credito) con qualche ambizione politica e il gioco è fatto.
Allora, siamo seri: la questione del Pd è molto più complessa e non riguarda una stagione. Lo stesso Zingaretti, animato dai migliori propositi e figlio della storia progressista di questo Paese, è stato divorato da questo corpaccione malato e conflittuale. O lo stesso Letta che, al di là delle sue intenzioni, è di fatto un segretario a sovranità limitata, che deve fare i conti con le divisioni interne e con gli equilibri dei gruppi parlamentari.
La questione è più complessa, dicevo, e non riguarda solo il Pd. Riguarda ciò che la sinistra dovrebbe essere e non è in questo Paese. Il Partito democratico avrebbe dovuto (potuto) essere, banalmente, il campo di rappresentanza dei più deboli della società italiana. Con un’ironia della storia che si è fatta beffe del Pd; poiché quanto più si andava allargando (per le crisi economiche e sociali succedutesi) l’area del disagio sociale (disoccupati, giovani, precari, professionisti, ceto medio, partite iva e tutte le categorie sociali di cui Ilvo Diamanti ci ha riempito per anni di mappe sociali), tanto più si andava restringendo la capacità di rappresentanza del Pd a discapito di altro (il M5S è solo l’ultimo puntino di elenco assai lungo).
Il punto è che il Pd non ha mai voluto sciogliere fino in fondo i nodi della sua identità e ha finito (in questo Renzi è stato il più bravo di tutti) per provare a tenere tutti dentro. Era o non era il partito “a vocazione maggioritaria” il sogno del primo segretario del Pd (Veltroni)? Renzi (con il 40% alle Europee) è riuscito laddove altri hanno fallito; ma Renzi e chi aveva sognato la “vocazione maggioritaria” (o solitaria) non avevano fatto i conti con il punto decisivo: un partito non è un tutto, ma è un pezzo, una parte. E neanche una “parte” che prova a essere simpatica alle altre. È una parte che determina il conflitto con le altre parti per ottenere l’avanzamento (il progresso) dei diritti di coloro che rappresenta. Un partito che ha cultura di governo ha poi la capacità, nella dialettica del governo di un Paese, di saper trovare la sintesi; ma quando questa “sintesi” la si fa nel partito, e a discapito della sua identità, banalmente esso implode nello scontro fra cose e culture che la storia colloca in spazi diversi e che non possono stare insieme.
E il nostro giudizio, con tanto di autocritica, non può essere meno spietato nei confronti di ciò che è nato e rimasto alla sinistra del Pd, poiché pure lì c’è stato tutt’altro che il tentativo di rappresentare quello spazio. A volte risposte velleitarie, qui con vocazione non maggioritaria ma isolazionista; a volte risposte strumentali a tutela della conservazione di seggi parlamentari. Mai il tentativo di restituire al Paese una grande forza unitaria di sinistra che affrontasse con realismo il dramma delle questioni sociali aperte.
Allora, dal mio punto di vista, oggi l’interrogativo, rispetto al quale nessuno può dire (se non per comodità o convenienza) di avere risposte facili in tasca, che sta di fronte a noi non è la questione del rientro nel Pd. Il rientro nel Pd, sic et simpliciter, per il sol fatto che se n’è andato il “nemico” (Renzi), è una risposta pigra, priva di fondamento politico. A dirla tutta, la trovo finanche una questione fuori dalla storia, poiché la questione è come si costruisce nel Paese, in Europa, nel Mondo, una forza organizzata di Sinistra capace di dare pensiero e azione, voce e simboli, a chi continua a non farcela, a seconda del luogo della terra o della famiglia in cui nasce. Di chi non ce la fa, oggi, nel mondo che è stato trasformato in maniera ancora più iniqua dal Covid e dalle scelte fatte per fronteggiarlo dalle economie transnazionali. Di una sinistra capace di riconoscere quelle sofferenze oltre le icone del passato; poiché oggi ve ne sono ancora di più e ve ne sono anche laddove avevamo immaginato non potessero essercene (basti pensare alle sacche di povertà fra chi fa della libera professione e dell’impresa il proprio reddito). Di una sinistra che vada oltre le etichette delle mode del momento e che dalle istanze di giustizia sociale, ambientali, civili e democratiche sappia costruire un pensiero in cui collocare le battaglie politiche. Di una sinistra capace di nutrirsi di questo pensiero, che si ponga queste domande, per conoscere poi la fatica delle possibili riforme da praticare per far progredire le sorti degli ultimi.
Allora, niente risposte semplificate. Niente vocazioni minoritarie e velleitarie. Ma un tentativo vero di ricostruire una grande casa, che prenda atto della oggettività che il Pd sia punto di riferimento essenziale in questa costruzione, ma con la necessità di navigare il mare grande della ricerca. Tutti insieme per costruire ciò che serve.
Può darsi che le agorà democratiche possano aiutare questa ricerca, anteponendo alla questione della tessera il dibattito sulle questioni fra iscritti e non iscritti al Pd.
Così come può darsi che esistano altre strade, nel mondo largo delle associazioni e dell’impegno di tutti coloro che aspirano a questa sinistra ma che non si riconoscono in nessun partito.
Sarebbe sciocco avere certezze in questa fase. Ma certamente non può essere un approccio pigro e semplificato che porti a una tessera di partito a rispondere a questi interrogativi. E certamente questi interrogativi non possono conoscere risposte solitarie. C’è un lavoro collettivo da fare. C’è una fatica collettiva da fare. Abbiamo bisogno di altri percorsi, di altri sentieri, di altre strade rispetto a quelle già percorse per costruire ciò che serve, per dare le risposte necessarie alla crisi sociale, economica, civile, intellettuale di questo Paese.